James Bond, l’analogico

spectreSe affrontiamo l’ultimo capitolo (per ora) della saga jamesbondiana con sguardo asetticamente comparativo, dobbiamo prendere atto che alla mancanza di verosimiglianza che da sempre caratterizza la serie creata da Ian Fleming (in ciò abbondantemente copiata da film d’azione sempre più iperbolici, alcuni peraltro magnifici, che hanno invaso il grande schermo a partire dalla metà degli anni Novanta), si aggiunge ora, in maniera esplicita, chiarissima, addirittura esibita, la sublimazione degli atteggiamenti anacronistici di un personaggio che, con immutato aplomb, con ineffabile stile, e semmai con una punta di cinismo in più rispetto al passato, affronta il pericolo con la proverbiale “licenza di uccidere” ma pure con risorse chiaramente inadeguate; nemici potentissimi e ipertecnologici con modalità sommariamente “analogiche” quali pugni, pistole, fucili e i soliti trucchetti escogitati dal genio eccentrico dell’agente Q. Potrebbe essere la dichiarazione poetica (o semplicemente estetica) di un regista come Sam Mendes, che in carriera ha sovente pagato un giusto tributo alla nostalgia (American Beauty, Era mio padre, Revolutionary Road) e che è giunto alla seconda direzione di 007 dopo Skyfall; ma risulta difficile pensare che un’operazione colossale di marketing, che travalica il cinema e sconfinain vari settori del commercio e della comunicazione, possa essere lasciata nella disponibilità e nella libertà espressiva del solo autore. Credo invece che Mendes sia il bravo e non passivo esecutore di un piano più ampio, che rivendica con decisione una primogenitura, conferma una cifra stilistica peculiare e le ribadisce entrambe, a scanso di equivoci, imitazioni, azioni parassitarie.

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Un modo elegante di accettare che qualcuno vada più veloce di te, ma solo perché tu scegli la macchina d’epoca (una perfetta Aston Martin d’annata, in questo caso, e fuor di metafora) invece dell’ultimo modello sportivo. E indubbiamente il gioco funziona per tutti i 145 minuti del film, sorretto come sempre da un protagonista che ha il phisique du rôle (Daniel Craig, sempre più a suo agio nei panni eleganti dello special seven), antagonisti carismatici (il tarantiniano Christoph Waltz), comprimari di rango (Ralph Fiennes, Ben Whishaw), bond­girl che mescolano bellezza e fascino (Monica Bellucci, Léa Seydoux). Con sviluppi narrativi non sempre intellegibili sulla base delle informazioni dispensate, talvolta un po’ cervellotiche, ma tutto sommato sempre riconducibili a un’impostazione rassicurante, certo meno estremista e spiazzante di quella che il cineasta avevamesso in campo nell’episodio precedente. Quest’ultimo, Skyfall, aveva posto in discussione le certezze maturate in oltre cinquant’anni di frequentazione cinematografica del mitico agente scozzese; e sembrava aver chiuso definitivamente il cerchio, lasciando macerie (non solo metaforiche, visto che persino “la casa” di Bond crollava, mentre il capo/ mamma, la leggendaria “M”, lasciava la saga con l’onore della morte eroica) e aprendo necessariamente a una nuova fase, della quale non si intravvedevano tuttavia le coordinate. Invece sceneggiatori, regista e produttori hanno imposto una variante probabilmente interlocutoria,rinviando a un momento successivo l’eventuale ripensamento del personaggio, optando per un’appendice riassuntiva, in cui hanno rispolverato lo storico avversario globale dell’umanità “buona”, la Spectre, quella con la piovra come simbolo; e ad essa ricondotto, con sintesi perfino brutale, tutti i nemici recenti affrontati da 007. Con tanto di riferimenti più o meno convinti alla paternità (diretta e supplente), alla maternità, all’amicizia, alla coerenza, alle crisi di identità, all’emersione di debolezze esistenziali o ancestrali (facile il richiamo ai dubbi del Batman in fumetti di Frank Miller, ben prima di quello cinematografico di Christopher Nolan) che potrebbero suggerire letture psicanalitiche accanto a quelle più superficiali, da film d’evasione, come 007 rimane per la stragrande maggioranza del pubblico. Spectre-­007 diverte comunque, ma con giudizio e senza picchi: contiene gli elementi riconoscibili della saga, si alimenta con le citazioni autoreferenziali e mediamente cinefile; con i rituali, la reiterazioni di luoghi comuni che si alternano cspectre-lea-seydouxon (poche) nuove intuizioni; ha le consuete, massicce, dosi di ironia a condire una pietanza gustosa. Ma trasmette anche una sensazione da fine ciclo, che sembra quasi invocare il colpo d’ala per il futuro, perché tornare indietro o prolungare la situazione di stallo non sembra plausibile. Agonia di un amore antico, in attesa di altro colpo di fulmine.