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Su RaiPlay La ruota delle meraviglie di Woody Allen: claustrofobie e scherzi del destino

Come in Blue Jasmine, la malinconia, prima ancora che il piacere del racconto, domina il film di Woody Allen La ruota delle meraviglie, ambientato negli anni Cinquanta nell’estate affollata e decadente di Coney Island.  Storia di Ginny, che, dopo aver tradito e lasciato il marito, si ritrova a fare la cameriera in un ristorante di pesce per turisti, con un figlio piromane e un secondo marito, Humpty, che, oltre a manovrare una giostra, passa il tempo a pescare con gli amici. L’insoddisfazione della donna la porta tra le braccia del bagnino Mickey, finchè lui non s’innamora della figlia di Hupty, a sua volta in fuga da un marito gangster. Si intrecciano i motivi ricorrenti del cinema di Allen, storie di matrimoni traballanti e chiusi in vicoli cieci, capaci di moltiplicarsi fino a divorare ogni possibilità di riscossa. Con Vittorio Storato come direttore della fotografia non è difficile creare il microcosmo chiuso ed esemplare, i fondali rosso sangue del tramonto sul mare, i colori accesi che riverberano dalla spiaggia, il dipinto di una realtà ricreata nella finzione e ampliata dai suoni del luna park, invadenti e inarrestabili. Tutto coincide come un meccanismo perfetto e beffardo. La grande ruota delle meraviglie che, anziché liberare lo sguardo oltre l’orizzonte, chiude la prospettiva dei protagonisti, prigionieri di una casa fatta di vetrate (oltre le quali, però, la ruota ostruisce la visuale). I ripetitivi riferimenti treatrali, letterari e cinematografici (nel migliore dei momenti si pensa ad Alvy Singer in Io e Annie quando dice di aver abitato sotto le montagne russe), in cui la storia si specchia a partire proprio dalle atmosfere e dalla malinconica rappresentazione dei personaggi.

 

 

Gli accadimenti, incorniciati dalle parole di Mickey, che ne è il narratore diretto, incastonati nel tessuto narrativo, come fosse un gabbeh. Ancora una volta la tragedia greca sta dietro la strategia narrativa di Allen, che ha l’astuzia di porgere l’intero film attraverso la performance dei suoi due attori, Kate Winslet e James Belushi, su tutti, capaci di reggere la finzione e di restituire stralci di autenticità altrimenti inesistente. Perché nonostante la precisione degli elementi, la nota stonata più evidente, qui, è la mancanza di profondità e di respiro. Tutto è pensato, semplicisticamente, come una rappresentazione frontale, esposizione di fatti piuttosto che un racconto a tutto tondo, a partire dal dialogo continuo del bagnino con lo spettatore, vero e proprio “intruso” che non consente ai tanti elementi messi in campo di svilupparsi autonomamente. Eppure non è il suo sguardo a influenzare il nostro, non è il suo punto di vista a organizzare gli intrecci. E così siamo fagocitati in un universo claustrofobico, fintamente perfetto in realtà disseminato di falle. Questo il meccanismo ormai da tempo ripetitivo di Allen: pensare il set quasi come un palcoscenico dove enunciare in ordine sparso, ciazioni, stereotipi, isterismi. Un po’ tragedia, un po’ melodramma, restando però, alla superficie delle cose e di ogni possibile emozione.