La tonalità crepuscolare e la concreta classicità di Il corriere – The Mule di Clint Eastwood

Earl Stone è vecchio e coltiva emerocallidi, dei fiori effmeri che sbocciano al mattino e appassiscono la sera: delicati e fragili ma talmente belli da meritare un impegno irrazionale e totalizzante, un impegno che gli uomini non meritano. Earl infatti è bravissimo nel suo lavoro – con tanto di premi a fiere ed esposizioni del settore – quanto incapace nei rapporti umani: non parla con la figlia dal giorno del suo matrimonio, che disertò nonostante le promesse, perso in una bicchierata di floricoltori in qualche landa desolata dell’Illinois; la moglie, che lo conosce e forse lo capisce e compatisce, lo ha abbandonato anni prima, sapendo di non poter cambiare quell’uomo testardo e ostico, incline alla solitudine e alla misantropia. Ora che la sua azienda è fallita e l’età non gli concede altri sconti, Earl cerca, approfittando della mediazione affettuosa della nipote (anch’essa in procinto di sposarsi), di riconciliarsi con gli affetti, di riconquistare un posto nel mondo che aveva disertato. Per riacquistare credibilità, però, Earl ha bisogno di soldi (siamo pur sempre in America) e i soldi lo spingono al commercio di droga, attraverso macchine anonime che attraversano pacifiche il confine con il Messico che Trump vuole chiudere ai migranti e che resta invece spalancato per i corrieri che riforniscono di stupefacenti il mercato americano.

Così, quasi per caso, Earl diventa il “mulo” perfetto: su e giù per il confine, a consegnare pacchi e a ricevere soldi, a provare l’ebbrezza di sentirsi ancora utile, operativo, affidabile, anche se per una finalità discutibile. Il corriere – The
Mule si iscrive perfettamente alla tonalità crepuscolare di parte della recente cinematografia di Clint Eastwood (quella che lo vede protagonista come attore, anzi, quella che è intrinsecamente rappresentata dal suo corpo di ormai quasi novantenne) che va da Gli spietati a Gran Torino. Le luci diagonali che colorano il film fanno pensare a un tramonto permanente, intervallato dagli accecanti bagliori delle highways del Sud che Earl attraversa placidamente, ostentando il contrasto tra la pericolosità fuorilegge delle sue missioni e la cura delicata (perché le cose, tutte le cose, se si fanno bisogna farle bene) con cui le porta a buon fine. Il film si dipana così, seguendo la litania delle consegne e concentrandosi sempre di più sulle piccole divagazioni, sulle digressioni emotive e territoriali che accompagnano l’autunno del protagonista. Earl scopre una tardiva ricchezza, una rinnovata gioia di vivere, un entusiasmo inatteso che gli permeteranno, a suo modo, di trasformarsi e di rinascere, assumendosi le responsabilità che aveva schivato per una vita intera e riconquistando, attraverso una nuova consapevolezza, la stima e l’affetto della famiglia che credeva di aver perso. The Mule è un film speculare a Gran Torino, sostituisce l’angusto cortiletto di una modesta casa suburbana con il senso di libertà delle autostrade, ma i protagonisti dei due film ricalcano un percorso comune, complementare. Entrambi reduci di guerra (la Corea, memoria storica di un paese in crisi di valori), entrambi estranei alla famiglia (chi per scelta, chi per incuria) e incapaci di specchiarsi in una patria che non li rappresenta più. Ma The Mule sembra avere una maggiore spensieratezza, un desiderio autoironico di leggerezza e di evasione. Walt Kowalski, il protagonista di Gran Torino, era un uomo incarognito con il mondo e solo la rinnovata epifania di una legge morale lo portava a superare pregiudizi e ostilità, arrivando a sacrificare se stesso. Earl è più consapevole dei propri umanissimi limiti, ma è capace di piegare il senso morale alle contingenze e alle necessità. Non è importante che cosa si fa, sembra dirci, ma come e perché lo si fa: i soldi dei suoi traffici finiscono per pagare il matrimonio della nipote, l’affitto della sede dell’Associazione Reduci o i debiti di qualche povero lavoratore strangolato dalla crisi.

Una versione ironica del patriottismo americano che si basa sul mutuo sostegno alle persone più che alla devozione verso concetti astratti. E questa leggerezza di tocco, questa demistificazione affettuosa, Eastwood la concede all’America ma soprattutto a se stesso: The Mule, che nasce da una storia vera e sembra sempre sul punto di trasformarsi in un’autobiografia romanzata, diventa così un film di piccoli detour, di incontri casuali e spuntini fuori mano, di feroce e duplice sarcasmo verso le ipocrisie dei nostri giorni. Earl si riempie la bocca, con gusto provocatorio, di parole razziste e omofobe – dice “negro” e “lesbica” con la convinzione semplice di chiamare le cose con il loro nome – ma allo stesso tempo è l’unico a guardare pragmaticamente il prossimo senza pregiudizi, ad affrontare con scanzonata ma irriducibile diffidenza le forme invasive del potere costituito. E all’esplorazione estatica dei paesaggi dal sapore on the road, atraversati con una calma che stride con lo scopo dei viaggi e musicati da una radio sempre accesa, si sovrappone una delicata e agrodolce rielaborazione – quasi una riscrittura – del senso più intimo e profondo del proprio cinema: dal “Gunny’s Burger” di una statale fuori mano agli inseguimenti in campo lungo (da Un mondo perfetto, con rovesciamento generazionale di ruoli), dalle parentesi tardoromantiche (I ponti di Madison County ) ai rovesciamenti morali ( Potere assoluto), dalla presa di coscienza delle proprie responsabilità (Debito disangue) alle dolenti incomprensioni familiari ( Million Dollar Baby). Eastwood sembra, in The Mule, rivendicare e rivivificare il proprio percorso, etico e cinematografico, assumendo sul corpo i segni di un passato che è tanto più vero quanto più lascia tracce. Riesce così a mettere in scena se stesso e un cinema che si rigenera nella propria concretissima classicità e che, nonostante qualche compiacimento e ammicco, si dimostra ancora una volta entusiasticamente vivo, degno dell’attenzione e della cura che si riservano ai fiori.