Su RaiPlay La vendetta di un uomo tranquillo: i giorni dell’ira secondo Raul Arévalo

La vendetta è un dispositivo narrativo che il cinema ha utilizzato con frequenza, svolgendolo in molti modi diversi, alcuni affascinanti, altri meno. La vendetta di un uomo tranquillo, pluripremiato esordio alla regia dell’attore spagnolo Raúl Arévalo, merita un posticino tra le opere che lasciano qualche traccia di sè: è un bel film, teso e dall’atmosfera vintage, che a dispetto di un’ambientazione moderna (l’azione si svolge ai giorni nostri) sembra ispirarsi a certo cinema italiano degli anni Settanta (prendendo qualcosa sia dai thriller politici di Elio Petri che dai poliziotteschi di Fernando Di Leo) e, per altri versi, pure a quello americano. La trama si concentra sulla figura del mite Josè, da poco arrivato in un quartiere alla periferia di Madrid e presto abitudinario di un piccolo bar. Si fa benvolere, Josè, entra nelle grazie del padrone e lancia timidi sguardi di desiderio alla sorella di questi, Ana; la quale è in tensione per l’imminente uscita dal carcere del suo uomo, Curro. Questi ha infatti scontato otto anni per una rapina in cui era l’autista, mentre i suoi compari sono riusciti a dileguarsi, potendo poi contare sul silenzio dell’uomo per restare impuniti. Che il titolo italiano espliciti fragorosamente l’idea che percorre l’opera e che il regista svela con gradualità, appare una cantonata non da poco del distributore nostrano. Tradotto creativamente, quello originale (Tarde para la ira, cioè “Tardi per la rabbia”) suonerebbe “Lento all’ira”, e sarebbe stato perfetto per incorniciare il racconto inscenato da Arévalo: avrebbe suggerito, ammiccato, non sarebbe stato sommariamente spiegazionista (e da spoiler) come quello nazionale, che per sovrappiù ha un vago sapore di western all’italiana fuori tempo massimo. Del western in versione spaghetti – o magari paella, considerato che la Spagna ha regalato discreti esempi di genere negli anni Sessanta, oltre alla location inimitabile di Tabernas – il film presenta semmai alcuni difetti: in particolare il gusto per l’iperbole e una ridotta attenzione per la verosimiglianza che si manifesta soprattutto nella seconda parte. Ma i pregi sono decisamente maggiori delle lacune e risiedono – oltre che in una bellissima ambientazione nella periferia madrilena, calda e vischiosa, e nella cura formale della messa in scena – nella costruzione di un meccanismo che fa crescere la tensione di pari passo con la rabbia del protagonista, e con il disvelamento di una trama più articolata e complessa di quanto potesse apparire in principio.

E c’è anche un’attenzione quasi pasoliniana (o leoniana) per volti e corpi che rappresentino al meglio un’idea vera di provincia e di marginalità, ricavando bellezza dall’autenticità a tratti sofferta, piuttosto che dalla fisicità plastica, glamour e fotogenica. Se la struttura dell’opera ha evidenti richiami truffautiani (a La sposa in nero), che Arévalo si diverte a seminare, in alcuni casi per svilupparli, altrimenti per frustrarne le premesse, c’è chi ha preferito un comodo accostamento a Cane di paglia (Straw Dogs, 1971). Che forse può essere annoverato tra le fonti del regista; il quale, però, sceglie un registro ben differente, prima nella definizione più sfaccettata dei personaggi, poi mantenendo la vicenda nell’alveo di una reazione plausibile sebbene terribile, non spostandosi sul terreno di un’esplosione inaspettata (e perciò tanto più roboante) come quella che caratterizzava Dustin Hoffman/David Sumner nel film di Sam Peckinpah. Anche se poi ci sono passaggi quasi splatter (e sovrabbondanti) che fanno un po’ rimpiangere la violenza stilizzata e rallentata che era cifra distintiva del cineasta di Fresno. Alla base di La vendetta di un uomo tranquillo c’è una coppia che con La isla minima nel 2014 già fece incetta di riconoscimenti (tra cui 10 Goya), ma con ruoli rimescolati: Arévalo, allora convincente protagonista, è passato dietro la macchina da presa; Antonio De La Torre, sublime comprimario tra le paludi andaluse, lo rileva nel ruolo principale. Fanno bella figura entrambi, e il cinema spagnolo conferma una volta ancora che, oltre agli horror, ha imparato a girare pure i thriller.