L’anomalia vincente di Steve Jobs

sjobs-release-bannerNon è facile rappresentare un personaggio sfuggente e complesso come Steve Jobs al cinema: ci aveva già provato con scarsi risultati Jobs di Joshua Micheal Stern con Ashton Kutcher, mentre recentissimo è il documentario Steve Jobs: the man in the machine di Alex Gibney, uscito nelle sale americane a settembre dello scorso anno. A metà tra l’immagine agiografica, conforme alle aspettative dei fan, di Jobs e il ritratto più sfaccettato di Alex Gibney, si colloca forse lo Steve Jobs di Danny Boyle, scritto da Aaron Sorkin. Il film ha il merito di gettare un’ombra critica su una figura considerata ormai quasi sacra, anche a causa di quei rituali che erano le presentazioni dei prodotti della Apple: ed è proprio dietro le quinte del lancio dei prodotti che Danny Boyle ci mostra il suo Jobs, in una sorta di resa dei conti professionale e privata alla Citizen Kane, che avviene tutta huis clos.

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La volontà era forse quella di fuggire le tappe tradizionali della biografia del guru della Apple, proprio per evitarne la celebrazione: sacrificando il linguaggio delle immagini a partire da un impianto teatrale quasi claustrofobico, in cui la regia di Boyle si fa sempre più invisibile, il film si articola in tre atti, ambientati nel backstage delle presentazioni di tre prodotti, che rappresentano altrettante tappe fondamentali del successo di Jobs: il Machintosh nell’84, il NeXt nell’88 e l’iMac nel ’97. Il tratto di Boyle sparisce  e si riduce al minimo per lasciare spazio alla scrittura, al walk and talk, che spesso è solo walk, dello sceneggiatore Aaron Sorkin: il dramma, che dal piano professionale si sposta man mano sempre più sul lato umano, confluisce tutto nei dialoghi o, meglio, negli agoni tra i personaggi, negli scontri di pugilato verbale che vedono il protagonista scontrarsi contro tutti  e uscire sempre vincente, non senza ferite da un Michael-Fassbender-Steve-Jobs-Movie-2015lato e dall’altro. Proprio come in Citizen Kane. Steve Jobs aveva il pregio di rendere personali oggetti asettici come i computer, di associarli alle nostre emozioni e soprattutto di far sembrare tutta questa cura del lato estetico necessaria, imprescindibile. Non perseguiva l’omologazione, ma è riuscito a dimostrare che è proprio l’anomalia che può risultare vincente. Lo sforzo di Sorkin è quello di raccontarci quello che si nasconde dietro questa patina di pensiero libero e alternativo che tutti conosciamo,  come del resto aveva già fatto egregiamente in The social Network prima (anche se Zuckerberg, pur essendo come lui un baro, certo non è Jobs) e con la serie The newsroom poi. Non troppo differentemente da quello che avveniva in The social network, la scelta è quella di far ruotare le mancanze e difetti dell’essere umano Jobs attorno al suo essere prima figlio dato in adozione dai genitori naturali e poi padre che si rifiuta di essere tale. Uno spazio significativo è dato nella storia alla figlia avuta dalla prima compagna, Lisa, presente a tutte e tre le presentazioni in varie tappe del suo rapporto col padre: Sorkin sceglie di darle un ruolo così centrale, che tutti i nodi del finale non potranno sciogliersi fino al suo arrivo e allo scontro finale con il padre, che ammette i suoi sbagli, fa ammenda e chiede perdono. Anche Steve Jobs, il santone dei computer celebrato come un dio dalla società di massa, era un essere umano che non sapeva come fare il padre perché, da figlio, si era sentito rifiutato e non amato.