L’attesa e il senso di trasparenza

1414194532500L’incipit è pernicioso, intriso di una ridondanza visiva che dispone male le coordinate di un film poi non così ingrippato come sembrerebbe… La tensione visiva del volto della Binoche che lambisce nell’ombra la sacralità del funerale, la tridimensionalità esibita del crocifisso, i contrasti chiaroscurali e poi i titoli di testa inutilmente performativi, inducono in tentazione “sorrentiniana” e la cosa può infastidire… Insomma, L’attesa meriterebbe un inizio più discreto, anche in considerazione della sua capacità di lavorare sul registro di contrasti più sfumati, non esclusivamente visivi: il film è un dramma scritto sulla materialità di un’assenza che prende corpo nel faccia a faccia tra due donne di età differenti, dove è soprattutto il tempo ad essere in gioco.

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Il titolo, del resto, ha una matrice nettamente temporale e non è certo difficile scandire. L’attesa dell’arrivo di Giuseppe da parte della sua fidanzata, Jeanne, in sintonia con l’attesa della madre, Anna, costretta a ribaltare le doglie del parto in quelle del lutto per la morte del figlio. Piero Messina gioca con evidenza la carta del tempo speculare di queste due donne, la traduce nella chiave esplicita di lettura di un film che si basa narrativamente su un mistero che non c’è, sulla esibita segretezza di un evento che è sotto gli occhi di tutti: Giuseppe è morto, ma Jeanne, appena arrivata dalla Francia, non viene a saperlo. Il film ha in questo senso una sua purezza semantica, che viene tutta dalla evidente rimozione di un mistero che invece grava solo ed esclusivamente sulla scena, nelle dinamiche tra le due protagoniste, che poi sono chiaramente una sola, l’uno lo spettro dell’altra, in reciproca sfida attraverso lo specchio trasparente del tempo. L’amore – di una madre, di una fidanzata – è la trama che regge questo mistero, ovvero l’inconoscibilità di un sentimento che resta destinato a una figura assente, all’enigma di un corpo morto di cui non resta che ciò che viene detto e ciò che viene visto nella sua stanza (siamo in Sicilia e la matrice pirandelliana è implicita, per chi abbia a mente una celebre novella dello scrittore…). Il film poi è denso, anche greve se vogliamo nella sua pulsione elementare, nella simbologia esibita, nella figura così scolpita della madre che rimuove il dolore. Eppure resta un senso di trasparenza che sta tutto nel fuori campo, nella dispersione del rapporto tra l’interno della villa e l’esterno, in un gioco di figure evidenti, di retorica del dire che fa a pugni con i silenzi di queste due donne (non dire, non chiedere). Il regno dell’astrazione, della sfuggevolezza imposto alla materialità dell’assenza, alla gravità della morte: è questo il gioco che Piero Messina tenta, sfida difficile che in parte vince, in parte perde. Fortuna che sul set aveva la Binoche, attrice che ormai in questo tipo di contrasti ci sguazza (basti pensare a Copia conforme) e regge il gioco con solidità.