Le regole del mondo: Manuel di Dario Albertini

È un processo di crescita inverso, quello incarnato da Dario Albertini nell’esile figura di Manuel, un cammino che scardina le certezze strutturate sulla sua persona da anni di accoglienza e contenimento in un centro per minori, per proiettarle in un mondo di incombenze ardue e spietate. L’idea è quella di un corpo fragile/forte che accoglie in sé la responsabilità di un mondo, dopo essere stato a sua volta accolto per anni in un mondo strutturato sulle responsabilità: la data di scadenza della maggiore età parla di un’infanzia da consumarsi preferibilmente entro i limiti stabiliti da quella stessa legge che ora gli consente di farsi carico della madre, Veronica, sulla via dei domiciliari dopo anni di prigione. Albertini illustra insomma un romanzo di formazione che lega il suo giovane protagonista allo scarto tra il senso di libertà e di indipendenza infine acquisito e il sentimento di un mondo che chiede troppo e dà troppo poco: la prima parte del film è tutto un frenetico intreccio di doveri in contenimento, strascico della Repubblica dei ragazzi raccontata da Albertini nel suo precedente documentario. Il perimetro della casa famiglia è giocato come un flipper di mansioni, relazioni, responsabilità, psicologie, sentimenti, rabbie gestite, che rimbalzano sulle pareti di una struttura in cui educatori e ragazzi dinamizzano un sentimento diffuso di appartenenza, contenimento, inclusione.

Manuel è un accumulatore di energia vitale pronta a proiettarsi, di lì a qualche ora, nella vita di fuori, al di là di quelle pareti, in una libertà nella quale dovrebbe farsi carico di se stesso, ma dove ad attenderlo c’è in realtà una madre/figlia, di cui la legge gli chiede di farsi carico, se vuole ritrovarla, se intende riunirsi a lei e tenerla con sé. Il parallelo con l’altra struttura di contenimento – il carcere, che trattiene Veronica a termini di legge – è scritto da Dario Albertini proprio sull’opposizione tra il vitale dinamismo della casa famiglia e l’ostruzione carceraria dei movimenti, degli spazi, delle relazioni: il doppio passo di una struttura sociale che implica nella libertà il controllo e nel controllo la libertà, si misura sull’idea di una responsabilità che significa farsi carico, superare il gap tra la speranza e i fatti, che nel mondo reale sono due cose separate, come dice l’avvocato. E allora il film di Albertini è tutto un intreccio di vettori opposti al cui centro Manuel si ritrova stordito, un po’ ago della bilancia che segna la misura, un po’ piatto di quella stessa bilancia, destinato a portarne il peso: su di lui si struttura il senso di appartenenza famigliare di una madre che non ha mai avuto e che ora si aggrappa letteralmente a lui per ritrovare la libertà e la vita. Ma in lui germoglia anche il senso di identità dell’età adulta in cui vorrebbe entrare. Il panico che lo attanaglia è espressione di un annichilimento dettato dai due vettori opposti che agiscono in lui. E la forza del film sta tutta nella scelta di Albertini di fare di Manuel un personaggio che si ritrova via via privato delle certezze, spogliato della libertà che credeva di poter acquisire. In bilico tra la verità e l’obbligo di un gioco relazionale che nella casa famiglia era strutturato sull’intreccio di affettività e regole, e che rischia di riprodursi anche nella vita reale, in quella casa di famiglia in cui deve ora accogliere e contenere la madre liberata. È il baratro che genera il panico in Manuel, è questa la paura che vediamo alla fine nel suo truffautiano sguardo in macchina. Il suo stordimento è lo stesso che scaturisce dall’ambiguità relazionale e affettiva messa in atto da Francesca nella scena di Jules e Jim che recita per lui, dove l’ammiccamento tra recitato e vissuto (incarnato molto bene da Giulia Gorietti) è il corrispettivo dello slittamento affettivo e relazionale che si instaura tra madre e figlio nelle scene nel carcere. Lo spazio della realtà in cui si muove Manuel è contenuto tra l’opposta strutturazione sociale degli istituti (pedagogico e carcerario) in cui si muovono lui e sua madre, ma lo schianto su cui si ritrova il ragazzo è proprio nella presa d’atto che quella realtà si struttura esattamente come l’ombra di un’idea osservata sulla parete di una caverna…