Le verità analoghe: Il terzo omicidio di Hirokazu Kore-eda

Quando Hirokazu Kore-eda, al Festival di Venezia 2017, incontrò la stampa per parlare del suo film Il terzo omicidio che concorreva nella sezione principale, centrò il suo intervento sul tema dell’indagine, del legal thriller e sulla figura dell’avvocato e del suo lavoro, riaffermando l’imperfezione delle nostre società nelle quali si delega ad alcune persone il giudizio su altre senza che i giudici sappiano davvero quale sia la verità. In realtà la verità è una sola, continuava il regista, ma è difficile, se non impossibile conoscerla completamente. Nel film, all’inizio tutto sembra chiaro, semplice, poi nasce l’ambiguità della verità. Dal sintetico resoconto sembra che Kore-eda, in linea con il suo film e quale appendice in forma di note di regia, sia stato reticente e non abbia detto tutta la verità, il che per un autore è legittimo. In realtà, infatti, il suo film non è solo questo e sarebbe riduttivo riportare dentro coordinate così minime Il terzo omicidio che invece si adatta a più complesse riflessioni. L’altra ipotesi, è invece, quella classica, e cioè che l’opera viva di vita propria dopo la sua nascita e ciascuno dei suoi fruitori la utilizzi come meglio ritiene, in altre parole: la poesia è di chi gli serve, come diceva Massimo Troisi. Per cui, sulla scorta delle parole del regista, ma in parte dubbiosi sulla sua verità, nel gioco artistico secondo cui non tutto e non sempre può e deve essere svelato, proviamo a entrare nel mondo che Il terzo omicidio ci propone. A posteriori – in quanto l’autore nel frattempo ha licenziato altre opere – il film conferma di quanto il cinema di  Hirokazu Kore-eda venga da lontano e di quale raffinata prospettiva sappia offrirci nel coniugare la profonda complessità concettuale con una, non trascurabile e soprattutto non facilmente raggiungibile, semplicità narrativa che diventa marchio del suo cinema girato in oriente e forse meno evidente nella sua unica e recente escursione europea.

 

 

Sulla riva del fiume Misumi ha ucciso il suo datore di lavoro. L’avvocato Tomoaki Shigemori viene incaricato della sua difesa. Ma la verità, nelle diverse versioni date da Misumi, non è una sola. Il terzo omicidio, a dispetto della sintesi nella quale può essere condensata la trama, è dunque un film complesso e a suo modo labirintico poiché ci si perde dentro, ci si perde soprattutto in quell’affastellarsi di verità sovrapposte che scombinano, ma solo apparentemente, la linearità di una consolidata procedura giudiziaria che solitamente vede il contrapporsi, consequenziale e quindi logico, del contraddittorio e che qui, invece, diventa discorso interrotto, mutevole atteggiarsi di una presunta colpevolezza o di una presunta innocenza. E forse mai i due atteggiarsi, contrapposti e antitetici della verità sono sembrati più evidenti, in perfetto equilibrio, senza partigianerie. Tanto il film lavora nel testo con le sue superfetazioni di verità analoghe, tanto, invece, con chiarezza quasi cristallina, emergono gli effetti di quella messa in scena che lavora in sottrazione e che tanto fa, aumentando il quoziente del significante in relazione al suo contenuto e alzando il livello di una narrazione che resta sempre precisa ed essenziale, perfettamente chirurgica nel suo insistito rigore. Il film sottrae parole, forse sottrae perfino immagini, sottrae la consumata tensione da legal thriller classico, che qui con autentica invenzione narrativa, si trasforma in indagine etica, che si depura da ogni contingenza terrena per trasformarsi, nel finale, in una trascendente forma di conoscenza che non è più verità, ma è aspirazione verso la perfezione di un uomo che si sente sbagliato. Kore-eda purifica il suo racconto dall’ansia narrativa che stempera nella più complessa articolazione che soprattutto incide sulla forma del genere che avvolge la storia. Il legal thriller ha la finalità della scoperta di una verità che resta poi assoluta e non revocabile, l’autore giapponese interviene operando quasi una mutazione genetica nel genere. Il legal thriller nelle sue mani acquisisce una differente finalità. Non si conforma più come ricerca di una verità assoluta e per farlo si fa, invece, rivelazione di più verità, di più atteggiamenti, diventando un possibile catalogo delle forme morali dell’essere. Diventando, il suo protagonista, non più l’imputato di un processo, ma l’imputato dell’esistenza ed è egli stesso che si mette sotto accusa, la sua colpa non è più l’omicidio, ma il suo stare al mondo. Misumi sfugge alla verità, come in Rashomon ne racconta diverse, si fa ostacolo al suo avvocato che prova a tirarlo fuori dalla prigione. Se da una parte prosegue l’indagine legale con lo staff di Shigemori al lavoro, dall’altra quest’ultimo comincia a comprendere che Misumi non è la libertà che vuole, non è l’assoluzione che cerca, né rivendicare la propria innocenza. Per la semplice ragione che Misumi non è innocente, forse lo è dell’uccisione del proprio datore di lavoro, ma non lo è nel senso di quell’ottica trascendente che appartiene alla genesi originaria del genere umano.

 

 

È per questa ragione che si fatica a considerare Il terzo omicidio solo come il racconto dell’indagine di un avvocato sensibile e rigoroso che prova a difendere un cliente riottoso a dire la verità. Infatti, il tema centrale del film ci pare essere, piuttosto che l’indagine e la scoperta dell’omicida, quello della ricerca della verità come forma e atteggiamento cui improntare la propria esistenza. Alcuni individui non dovrebbero nascere si dice più volte nel film e questo tema della non esistenza al mondo in ragione di una colpa, diventa il tarlo etico del protagonista detenuto e l’avvocato Shigemori il suo maieuta che lo aiuta in questa difficile operazione di ricerca. Colui che cerca le soluzioni, colui che indaga per estrarre la verità. Kore-eda, ancora una volta, ma qui con un’operazione molto interessante perché utilizza modelli narrativi conosciuti per mutarne le finalità, indaga sul tema che sembra essere divenuto centrale della sua poetica. È proprio un caso fortuito che il suo ultimo film si intitoli, con una specie di epifania lampante, La verità? Non crediamo che sia così e non crediamo neppure che il suo precedente Un affare di famiglia, al pari di questo, sebbene con strutture diverse e una maggiore semplicità d’impianto, altro non sia che un’altra variazione sul tema della rivelazione della verità che arriva in un finale al tempo stesso commovente e liberatorio. Con Il terzo omicidio il regista giapponese si serve della giustizia come metafora per l’affermazione di una verità sempre mancante e del tribunale come palcoscenico naturale dove si manifesta alla fine, la verità conclamata. Ma il regista sembra volere riaprire i giochi e dimostrare che il tema della rivelazione della verità è materia trascendente che sfugge al giudizio ed è questione prima privata, poi morale e nulla ha a che fare con la giustizia.

 

 

Poi ci sono la/le verità collettive quelle che invece trovano spazio nelle aule di tribunale, che si mettono al cospetto di un giudizio e sono molte, tutte possibili, ma spesso indicibili e infatti nessuno le dice davvero come conclude la giovane Sakie alla fine del processo. Siamo ad un livello diverso rispetto alla verità che appartiene alla coscienza dell’individuo, laddove il vero evento è la sua possibile rivelazione, tanto straordinariamente vicina quanto invisibile. Come la madre di Sakie che “non vede” gli abusi che il padre compie su di lei. Misumi cambia più volte versione sul delitto che forse ha commesso: prima i debiti di gioco e l’usuraio da soddisfare, quindi un omicidio per bisogno di denaro; poi racconta di essersi voluto vendicare del suo datore di lavoro, quindi un omicidio d’impeto; ma successivamente dirà che è stata la moglie della vittima a chiedergli di uccidere, quindi un omicidio su commissione, da sicario; in una successiva sequenza sapremo che Misumi ha ucciso perché la vittima abusava della propria figlia e quindi ancora un omicidio per vendetta; alla fine Misumi dirà che non ha commesso alcun omicidio. Verità tutte credibili, tutte adatte e tutte (forse) false. Tanto il film provoca rivelazioni di verità, tanto le copre di quel riflesso di falsità che le opacizza, in cui si negano l’una con le altre, in una infinita autonegazione, come accade nel paradosso del mentitore. Kore-eda in questo suo percorso artistico coerente e complesso sta forse provando a dimostrare ciò che intuiamo, ma spesso non diventa pensiero cosciente. L’impossibile ipotesi di una sola verità. Dopo Pirandello e Kurosawa abbiamo imparato che l’arte può indicarci il quadrivio tra tante verità da contemplare, come fa l’avvocato nell’immagine finale del film, Kore-eda, di suo, aggiunge la rivelazione come forma ultima e possibile che certifichi l’errore dello sguardo umano sui fatti. È lo stesso assunto di Un affare di famiglia ed è lo stesso di La verità. Kore-eda ci porta a scoprire il fascino di un cinema rigoroso nella forma e nel contenuto, astratto e concreto al tempo stesso, che rema contro ogni possibile andamento dei nostri tempi dove l’immagine che manca è proprio la conoscenza originaria della verità che conserva la proprietà di ciò che esiste in senso assoluto e che non può essere falso.