L’etica del politicamente scorretto in Play di Ruben Östlund su ArtéKino Festival

Il Cinéma Verité confonde i fatti con la verità, quindi ara solo pietre. Eppure i fatti, talvolta, hanno uno strano e bizzarro potere che fa sembrare incredibile la loro verità intrinseca.
Werner Herzog

 

La piattaforma ArtéKino Festival, propone ogni mese la visione online gratuita di lungometraggi con sottotitoli nelle diverse lingue. Un progetto che si articola in due periodi, un momento clou a dicembre e la selezione mensile di opere, durante tutto l’anno. In questo mese ancora in corso è visibile Play film del 2011 del regista svedese Ruben Östlund, che poi avrebbe diretto nel 2014 Forza maggiore e, successivamente, nel 2017 The Square. Östlund è un autore che non va per il sottile e in questa prospettiva non gli importa molto di essere politicamente corretto o meno; non gli importa molto dello spettatore e non gli importa neppure troppo di far fare bella figura alla sua perfetta Svezia, dove il film è ambientato, avendo tratto spunto da un fatto di cronaca. In un centro commerciale un gruppo di ragazzini di colore avvicina tre coetanei del luogo con una banale scusa, chiedere l’ora. In realtà la questione è più complicata. I ragazzini immigrati formano una specie di baby gang e con una soggiogazione psicologica obbligheranno gli altri tre a seguirli e con una serie di inganni finiranno per rubargli portafogli, cellulari e ad uno di loro, giovane allievo del Conservatorio, perfino il clarinetto. Tutto avviene en plein air sul tram cittadino o sotto gli occhi dei passanti, anche di quegli adulti ai quali è stato anche chiesto aiuto. In parallelo su un treno, una culla è stata abbandonata nel corridoio. Gli addetti all’altoparlante invitano lo sconosciuto proprietario a liberare il corridoio dall’ingombro. Ma il viaggio continua e nessuno sposta l’oggetto.

 

 

Questa la sintesi della trama, provando a fornire qualche elemento che possa indirizzarci verso una valutazione del lavoro del regista, che oggettivamente, presenta profili non sempre condivisibili. Il film prescinde da qualsiasi analisi politica e sociale, prescinde, soprattutto da qualsiasi indagine psicologica dei personaggi e si presenta con uno sguardo che si ritiene debba essere il più oggettivo possibile (almeno questa è l’impressione) sulla realtà, quello sguardo da entomologo che non interviene sulla realtà, ma che dovrebbe mostrarla nella sua nitida forma. Dentro questa realtà visibile ci stanno questi cinque ragazzini tutti neri, tutti immigrati, tutti sfacciati, tutti arroganti e quanto altro ci possa essere di odiosamente antisociale. La camera fissa con i suoi lunghi piani sequenza, restituisce una freddezza cronachistica che il racconto conserva dall’inizio alla fine. Questa modalità narrativa obbliga lo sguardo del regista ed anche il nostro a restare ingabbiato dentro i margini di quella inquadratura, allo stesso modo, quella visione rischia di intrappolare il nostro giudizio su ciò che accade. Per riflettere meglio sul tema della rappresentazione e su quello, correlato, della trasposizione della realtà con il cinema possiamo ricordare quanto diceva sull’argomento Claude Chabrol: Credo che la funzione del cinema debba essere quella di dimostrare allo spettatore la differenza tra realtà e apparenza e poi, più in particolare, quella di fare passare la realtà nella fantasmagoria. … Il cinema è l’unica arte in grado di mostrare questo scambio tra la realtà e l’apparenza e non voglio dire raccontarlo, ma proprio mostrarlo. Pertanto, quando l’immagine è insopportabile il che, accade quando non svolge questa funzione, bisogna eliminarla”. Il grande autore francese, come il resto della sua generazione di cineasti, credeva nella esclusiva efficacia del cinema come dispositivo di verità. Fenomeno essenziale questo, che si manifesta solo quando il reale si trasfigura nel falso, cioè nella sua vera rappresentazione. In questo processo di purificazione (oggi va di moda il termine sanificazione) di ciò che vediamo il cinema sa trovare la (sua) verità.

 

 

Östlund, sembra volere saltare ogni elaborazione e il suo cinema che è comunque di finzione, sembra volere solo ricreare la cronaca. Il suo film, in questo percorso inverso, nel restituire le immagini di una finta oggettività provando a farle passare per autentiche, compie un’operazione di sopravvalutazione del falso spacciato (quasi) per vero. L’operazione di Play (già il titolo è indicativo dei processi che hanno portato alla sua realizzazione) è quella di fare sembrare vero, come una ripresa con telecamera nascosta, tutto quello che vediamo, quando, invece, le cronache ci dicono che il film, proprio per questa sua struttura fatta di lunghi piani sequenza fu lungamente preparato con il cast dei giovani interpreti. Questa struttura, raggelando ogni emozione, impedisce, apparentemente, interventi valutativi su quello che oggettivamente si vede, ma impedisce anche e soprattutto, qualsiasi indagine psicologica dei personaggi, dei ragazzini che si comportano, effettivamente – su questo non ci piove – da piccoli delinquenti. Ma anni di sociologia della devianza e di indagini concepite secondo questa disciplina, avrebbero dovuto insegnare a tutti che il male e la devianza sono i sintomi di una malattia più profonda. Il rischio che si assume Östlund è grosso. I cinque ragazzini neri e immigrati cattivi e devianti solo sintomi di una malattia più profonda, rischiano di finire, grazie ad una inattesa superficialità, per il diventare la malattia. Östlund nel suo film, nonostante le sue ottime intenzioni, tende a vanificare la funzione del cinema o comunque quella maggiormente apprezzabile. Le sue immagini, le sue sequenze, generatrici di un forte senso di impotenza per quella sottomissione senza condizioni dei tre malcapitati ragazzini finiti tra le grinfie di quella baby gang, restituiscono solo la patina superficiale del reale, senza badare che i processi del cinema che conducono alla verità sono altri. Il reale, come ormai abbiamo imparato da tempi remotissimi, non è la verità. La verità, paradossalmente, ha bisogno di una lunga elaborazione. Herzog ha sostenuto che bisogna trascenderla, sorpassando i suoi limiti.

 

 

Il regista svedese, nonostante le sue buone intenzioni, con il suo approccio che nei propositi è volto a trasferire sullo schermo la verità intatta, mai contaminata, si ferma, invece, ad una specie di cronaca di un finto e superficiale reale. Il film, al contrario di come appare, leggendo le interviste ha avuto una lunga preparazione. Ogni dichiarazione sulla società svedese disarmata davanti a questi fenomeni di delinquenza minorile è quasi avulsa dal film che è altra materia. Né l’opinione può mutare con il finale in cui provando a giustificare il comportamento dei giovanissimi immigrati malviventi, una sequenza ci informa dei problemi familiari legati alla condizione di indigenza. Östlund non è neppure Wiseman, che fa emergere la verità dalla complessità delle relazioni, dalla connessione dei fatti, trattando il reale sempre con l’attenzione che si deve agli organismi complessi. Östlund riduce e semplifica, troppo. Il suo sguardo è quasi inerte, nulla a che vedere con la partecipazione provocatoria di certo cinema-verità. In questi problemi si dibatte anche Play e in genere il lavoro fin qui visto del regista svedese, che di lì a qualche anno avrebbe, forse, stemperato in Forza maggiore (2014) quella contemplazione senza emozioni con l’inserimento di una embrionale elaborazione, ma anche questo film alimenta le molte riserve sul reale rilievo del suo cinema.