L’identità del passato: Noi, di Jordan Peele

L’apparente contraddizione insita nel fatto che un ex comico come Jordan Peele sia oggi uno dei nomi più quotati nel campo dell’horror può cogliere di sorpresa solo chi non ha capito come proprio gli stand-up comedians e gli onscreen performer rappresentino la novità più dirompente del cinema americano contemporaneo (si pensi anche a Adam McKay, solo per citare un altro nome). Per la loro versatilità nel giostrare i generi, ma anche perché quella formazione ha evidentemente allenato il loro gusto per il paradosso, rendendone la creatività sensibile alle pulsioni multiformi del nostro caotico tempo. Altro aspetto peculiare di questa generazione è la loro capacità di lavorare su più livelli, come testimonia anche il titolo di Noi, quell’Us che accanto alla traduzione letterale usata pure in Italia, rimanda altresì all’acronimo di United States. Il riferimento “doppio” è esplicitato dal primo dialogo fra i protagonisti e i loro minacciosi omologhi. Se i primi dicono degli altri “sono noi” (“It’s Us” in originale), quelli rispondono invece “Siamo americani”. La confusione identitaria, dunque, già al centro del precedente Scappa – Get Out, è quella che permette alla nuova incursione di Peele nel genere di intrecciare fittamente riferimenti altrimenti difficili da cogliere al primo sguardo. A un livello superficiale, infatti, Noi è la storia di misteriosi “doppi” che emergono dal “mondo di sotto” per impadronirsi della superficie, secondo uno schema che rimanda a certe invasioni da fantascienza classica o alle puntate di Ai confini della realtà – serie che peraltro proprio Peele sta riprendendo nella sua quarta e più recente iterazione. Il fatto che queste “ombre” siano ritratte come una sorta di minoranza rancorosa, un rimosso dell’America ricca che abita la superficie, rinnova la dicotomia fra il cuore capitalista degli Us e le minoranze ridotte ai margini, caricando la vicenda di una chiara componente metaforica e politica. Quella dei “doppi” è infatti una rivolta che si accanisce contro le case dei ricchi, invadendo la proprietà privata. Stavolta, però, il nostro punto di vista è quello di una famiglia black e ben integrata nel tessuto sociale ed economico dell’America, di cui non viene quasi mai rimarcata la “differenza” rispetto agli altri – solo in un passaggio il capofamiglia usa l’espressione “merda da bianchi”, ma che a farlo sia il membro più disallineato e fatuo del nucleo, spesso deriso dai suoi stessi figli, è abbastanza sintomatico della natura inerziale del commento.

 

Come nel già citato Scappa, la posta in gioco è perciò data dal bisogno di definire un’identità attraverso il confronto fra una minoranza e una maggioranza che si rispecchiano l’uno nell’altra, che desiderano essere l’altro, e che in sostanza incarnano le contraddizioni di un mondo che non ha fatto i conti con le proprie sperequazioni. Su questa base, Peele innalza una sovrastruttura visiva che sembra raccontare un’altra storia, che cerca bizzarre triangolazioni geometriche nella disposizione dei corpi nello spazio, descrivendo traiettorie che ridefiniscono i ruoli e gli scenari e stabiliscono la natura di comprimari e protagonisti, spesso ribaltandola, proprio attraverso lo spostamento delle figure negli ambienti. Il tutto giocato all’interno di un sistema di riferimenti “pop” a volte esplicito (le Micromachines o Mamma ho perso l’aereo citati nei dialoghi o i loghi dei film sulle magliette), in altri casi meno “detto”, ma comunque ben percepibile (l’intero incipit che sembra una risposta alle atmosfere di Stranger Things), molto più spesso appena percettibile e che non ha caso ha già scatenato in rete la caccia alla citazione. Sebbene Noi dribbli abilmente tutte le convenzioni dell’horror contemporaneo (a iniziare dalla pressoché totale assenza di “salti” sonori, i cosiddetti jumpscare), mentre si propone quale lavoro originale, costruisce al contempo un fitto sistema di riferimenti cinematografici e popolari nello spazio attorno ai protagonisti, delineando un immaginario riconoscibile anche quando non immediatamente percepibile. Lo scarto rispetto a Scappa è notevole, per la composizione sempre molto attenta delle inquadrature, per l’impianto che lavora su campi, piani, sull’uso espressivo di luci, ombre e colori e persino sulla consistenza materica delle figure – i “doppi” si presentano in quanto sagome indistinte in campo medio, salvo poi diventare corpi di carne che attaccano e uccidono. Peele mira così a creare una sorta di “comfort zone” dell’immaginario, dove però l’iconografia che riconosciamo in quanto familiare e “amica” ci si rivolta letteralmente contro, rivelando la fragilità degli equilibri che la società contemporanea si è imposta. Il che permette al film di essere contemporaneamente una perfetta opera di genere, con le sue “regole” interne che definiscono un universo molto chiaro, ma anche un’operazione apocalittica che chiama in causa tematiche molto più grandi, che partono dal personale (il vissuto della protagonista Adelaide) per arrivare a investire l’economia e il fanatismo religioso – i “doppi” vengono scambiati per terroristi e vestono effettivamente come dei carcerati. Soprattutto, Noi disvela il precipitato reazionario e malvagio del “nostalgismo” attualmente in atto. La capitalizzazione sul passato si rivela infatti esposizione a un ricettacolo di traumi dell’animo sopiti e metabolizzati come positivi, che si dimostrano invece culla dei segreti più allucinanti. È il paradosso più grande del cinema contemporaneo, affrontato con le sue stesse armi da chi ha capito bene le contraddizioni del sistema in cui si muove.