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L’inclusione del Male: Hereditary di Ari Aster

L’inizio sembra Wavelenght di Michael Snow, col frame della finestra che fa da commutatore tra prospettive opposte (il dentro e il fuori, il qui e l’altrove) e la dimensione sonora del tempo che incombe come una pulsazione nel silenzio, innescando il senso della soggettività. Poi l’impressione iniziale si conferma: Hereditary – Le radici del male è un oggetto intransigente, un horror che non concede sconti alla tensione strutturale ed espressiva che ricerca. E non c’è bisogno di leggere le dichiarazioni dell’esordiente Ari Aster (un pugno di corti interessanti alle spalle e poi l’exploit all’ultimo Sundance) per inciampare in sensazioni bergmaniane, per ascoltare lo stridore psicologico di fondo su cui il film si costruisce, disturbato quasi come fosse La stagione della strega romeriana: stessa isteria radicata nelle pareti domestiche, qui miniaturizzate dalla mater familias Annie, ovvero Toni Collette che infatti continua a non vedere dead people, a differenza della figlia Charlie… Le scene di famiglia in un interno che Annie modella in miniatura sembrano voler razionalizzare l’angoscia dello spazio domestico in cui questa figlia/madre/moglie è incastrata, squadrano lo spazio immobile in cui la sua casa vive, modellistica immobiliare assunta ad arte in miniatura e visione di un dramma familiare incombente, introiettato, manipolato e inscenato come fossero le quinte dello psicodramma in corso d’opera.

La madre è morta, portandosi dietro i segreti esoterici che coltivava nel suo cuore, Annie però è ancora posseduta dalla sua terribile ombra, che si allunga soprattutto sulla figlia, Charlie, ben strana e inquietante nella sua deforme reattività al mondo reale. La prospettiva matrilineare dell’angoscia che incombe su quella casa è ben chiara, incarnazione del modello stregonesco gotico, fondativo della cattiva coscienza americana. E infatti le figure maschili in scena sono inani come il pater familias Gabriel Byrne, che sopporta e supporta con pazienza, o inermi come il figlio Peter, che vive in un angolo la sua normalità. Ari Aster costruisce la scena come un dispositivo silenziato, diffondendo l’angoscia nel distillato di psicologie disturbanti, astratte e oblique nel loro realismo come un quadro di Grant Wood. Ma è tutto un trucco, perché poi il film funziona su ingranaggi interni che ben presto saranno scoperchiati: [spoiler alert] la scena matrilineare è solo l’apparenza da rimuovere e, come in ogni storia di stregoneria, il destino dell’esser donna è quello di essere una porta, una via di transito attraverso il quale il piede caprino del Male che entra nel mondo è immancabilmente maschio. E allora il quieto Peter diventa agente involontario e inconsapevole di cotanto orrore, invertendo con non poco sgomento la prospettiva di un film che ancor di più diventa specchio di un sistema sociale e psicologico intriso di possessione, ovvero tarato sull’estraniazione dell’individuo, sullo sforzo di impossessarsi della libertà e della purezza. Peter dovrà essere strappato a se stesso per essere accettato, per diventare ciò cui era destinato ad essere nelle trame maligne familiari.

Insomma, l’accettazione è il male, l’inclusione è l’orrore da cui scappare: ci sarà un motivo se il modello da sovvertire su cui si basa certo horror contemporaneo è l’accoglienza, se è nell’inversione del rapporto tra accettazione e rifiuto che si gioca la partita dell’inconscia e immota (perché eterna e immutabile) paura del patto, del legame – familiare o sociale esso sia… come il Chris di Get Out, il Peter di Hereditary è il corpo da possedere e da annientare, la volontà da ammutolire, il sentimento da disinnescare. E come Get Out, anche Hereditary è marchiato dall’idea di lavorare sull’ambiguità del concetto di appartenenza, sulla dissociazione tra l’essere identitario dell’individuo, la sua natura in sé conclusa, e l’essere condiviso, ovvero quella parte di sé che appartiene agli altri, perché dagli altri è accettata e corrisponde al contesto (familiare, sociale) in cui si è calati. L’inversione della prospettiva del terrore – in genere basata sul principio dell’estraneità del mostro e della sua espulsione – instaura in questi film un regime orrorifico che trova il suo climax nella forzatura dell’appartenenza, nella pulsione a fagocitare l’individuo in una sfera (sociale, razziale, familiare) che lo espropria della identità, privandolo delle sue caratteristiche, succhiandone l’essenza. Inarcando il modello gotico della stregoneria, questi film lavorano sull’apice del contrasto tra Bene e Male concettualizzandolo sul crinale più critico dell’essere contemporaneo, quello del confine, della barriera da valicare, della linea da superare per essere accettati, riconosciuti, per esistere al mondo. Proprio come Get Out, anche Hereditary costruisce l’orrore sul criterio dell’appartenenza e dell’accettazione: che si presume corrispondente e unitario nelle dinamiche sociali sane, ma che in quelle malate si rivela alternativo e contraddittorio. E fonte di grande, irrazionale paura.