L’incompresa tenerezza di Pamela in Sola al mio matrimonio di Marta Bergman

La rom e rumena Pamela, protagonista di Sola al mio matrimonio, di Marta Bergman, fa venire in mente l’indimenticabile Rosetta, personaggio principale dell’omonimo film dei fratelli Dardenne. Con il personaggio creato dai due registi belgi – e il Belgio ha un ruolo determinante anche nel film della Bergman – condivide l’istinto naturale, quasi primitivo, che spinge la sua esistenza alla ricerca di una minima condizione vitale. Condivide anche, una irrazionale voglia di vita e le altrettanto irragionevoli decisioni che gliela complicano. Come Rosetta, Pamela sembra non sappia vivere i propri sentimenti, sopraffatta come è da un bisogno di fuga dettato, di certo, dalla fame, ma anche dall’urgente bisogno di evasione da quella profonda provincia rumena che appare desolata nei paesaggi urbani e umani. È questa Pamela, scapestrata e instabile, madre di una figlia, che convive con l’anziana nonna con cui condivide il ricordo della madre scomparsa; ed è un insopprimibile bisogno vitale a spingerla oltre i suoi confini, a farle misurare il grado di vergogna che è disposta sopportare per uscire da quella condizione di profondo disagio. È da queste primarie pulsioni che impariamo a conoscere il personaggio scomodo e urtante di Pamela, come quelle altrettanto originarie che la spingono ad incontrollate relazioni sessuali, tutte destinate a fallire, ma tutte dirette a preservare il futuro della propria vita e di quella della figlia, ma anche, incredibilmente e forse perfino inconsapevolmente, a manifestare il naturale istinto di conservazione.

 

 

Le riconosciamo quindi l’audacia delle scelte, il coraggio delle decisioni, ma sappiamo di non potere condividere sempre e fino in fondo il salto nel vuoto che quotidianamente sembra compiere anche quando è diretto ad approdare nella direzione della ricerca per un futuro migliore. Ma sappiamo che il coraggio è dettato dalla paura e sul volto di Pamela che poi è quello di Alina Șerban, accanto ai tratti anche duri che rivelano la sua condizione umana, troviamo anche i segni del panico da ignoranza forzata, da stato di necessità. Le sue menzogne sono lievi, ma amplificate dal contesto. È qui che Pamela suscita perfino insospettabile tenerezza. La provoca quando il suo sguardo incrocia quello dell’amico Marian con in braccio sua figlia, sapendo che non può correrle incontro; la suscita ancora quando si concede nella speranza dell’ascolto; ritorna a manifestarsi attraverso la poliziotta che nel riaccompagnarla a casa mente a Bruno, l’uomo con cui convive dopo una superficiale conoscenza in rete, sulle ragioni del fermo di Pamela. È per questo che comprendiamo, benevoli e toccati da una ruvida grazia segreta. Pamela, come Rosetta, scompiglia i criteri di selezione delle scelte, mette in crisi lo stato di salute della vita ordinata e organizzata di Bruno, il compassato belga che avrebbe scelto come improbabile compagno di vita, solo dopo una breve chiacchierata su Skype, organizzata da un sito di incontri. Pamela non cerca e non vuole l’integrazione, la sua etnia è il suo marchio e nel bene e nel male il suo è un carattere femminile dominante e determinante, come sempre nella cultura Rom. Non è quindi alla ricerca di una nuova identità, con la sua che le appartiene prova a costruire, senza strumenti e con i pochi che possiede, la rassicurante stabilità nell’Eldorado occidentale.

 

 

Quello di Pamela è il vagare insicuro, solitario, ma al tempo stesso determinato e insostituibile da alcun altro strumento di sopravvivenza, originato da un inguaribile nomadismo che non le dà pace, un’inquietudine originaria. È per queste ragioni che il film di Marta Bergman, già regista di alcuni documentari sulla Romania e sui Rom in particolare, costituisce, come pochi negli ultimi tempi, una vera e propria pietra d’inciampo nel panorama del cinema più visibile che non chiameremo mainstream proprio perché le faremmo un ingiusto torto. Pamela con la sua commovente ansia di nuovo, voglia di nuovi sguardi e la sua volontà di imparare dal mondo, finisce con lo sbattere le sue fragili ali contro il muro di una sommessa, in verità mai eclatante, ma altrettanto insuperabile, diffidenza che la respinge. Quindi Sola al mio matrimonio è anche un altro film sull’immaginario e immaginato benessere occidentale, ma la regista rumena, che ha dimestichezza con i luoghi che descrive, con il Belgio, in particolare, dove ha completato i propri studi, è misurata, sapendo costruire con una credibile sceneggiatura e una altrettanto coerente costruzione, il profilo di un occidente tutto sommato benevolo, come lo sono gli inconsapevoli genitori di Bruno, curiosi della probabile futura nuora e della sua cultura così lontana dai loro standard, come l’impiegata della scuola. Invece, paradossalmente, l’indisponibilità all’ascolto proviene a Pamela proprio dalla sua gente, in quel campo rom dove, finalmente, potrà rivedere e riabbracciare la figlia che le manca. La figlia negata alla conoscenza di Bruno in una delle sue tante menzogne o cose taciute per timore, per protezione di sé stessa e della sua bambina. Ma è proprio questa menzogna a tradire Bruno che non capisce il perché dell’abbandono. Ma nel linguaggio, anche non verbale di Pamela, vale, ancora una volta, solo ciò che le torna utile, ma non per ingordigia o cattiveria, ma è solo la difesa di chi non ha difese. E ancora una volta, nella manifesta menzogna, si intravede la giustificazione del gesto, la sua mutazione. Ciò che è riprovevole, diventa comportamento ammissibile, degno di comprensione e perdono, in quella logica che scardina e spariglia i consueti criteri di giudizio. Sola al mio matrimonio, il cui titolo sottolinea il senso di isolamento che sovrasta la vita della protagonista, diventa infine un film sulla crescita e sulla acquisizione di consapevolezza, sulla instabilità dei nostri tempi, sull’affidamento alla vitalità e alla efficacia primitiva degli istinti, su un anomalo atteggiarsi dell’amore materno, tanto invisibile da essere sottolineato nel finale solo dall’incresparsi del sorriso di Pamela, quando è di nuovo riunita alla piccola Bébé dopo il forzato abbandono, maturato con segreto dolore, nello sconosciuto villaggio di Galbinasi.