Locarno 70 – Il tempo intimo di Distant Constellation di Shevaun Mizrahi

Se il tempo non esiste, Distant Constellation lo esprime nel profondo. Costellazioni lontane anche se molto ravvicinate, che si specchiano e guardano senza dialogare. Un cantiere per la costruzione di un grattacielo. Una casa di riposo. Dirimpetto. Insieme, in una stessa inquadratura di esterno, in una delle ultime immagini. Altrimenti, separati o uniti da finestre di stanze che rimandano parti intraviste. Un mondo di giovani operai che pure dormono sul luogo di lavoro, in alcune baracche. Un mondo di anziani che si avviano al congedo dalle loro vite (il film è dedicato a quattro di loro, scomparsi). Per entrambe queste costellazioni il presente è qualcosa di estraneo. Da una parte come dall’altra si dorme, ci si risveglia, si compiono gli stessi gesti quotidiani. Siamo in Turchia, a Istanbul, o – meglio – in quel pezzo ristretto di città, nel distretto di Sisli, dal quale il film non esce mai. Opera prima della regista Shevaun Mizrahi (cresciuta a Boston, la famiglia del padre è turca), già assistente del direttore della fotografia Ed Lachman (ringraziato nei titoli di coda insieme, fra i molti altri, al filmaker di Baltimora Theo Anthony, autore del notevole Rat Film, a Locarno la scorsa edizione), Distant Constellation (in Cineasti del presente) è una composizione per quadri meticolosi, mai schematici (pur nel continuo passare e nel porre in relazione quegli unici due set), perché la giovane autrice sceglie la strada dell’ascolto e dell’osservazione. Ascoltare anche con gli occhi. Che filmano tanto l’avanzare del cantiere, i totali del corpo vuoto del futuro grattacielo, dove le gru formano linee geometriche all’interno delle inquadrature, quanto le stanze del ricovero e i loro residenti, ognuna colma di oggetti che costituiscono strati tangibili del vissuto ormai molto distante di quelle donne e di quegli uomini.

Un’anziana armena che ricorda il genocidio del 1915 compiuto dai turchi e l’obbligo, per salvarsi, di convertirsi alla religione musulmana e di adottare nomi turchi. Lei li ricorda tutti, i nomi turchi dei familiari. E ancora oggi ha terrore che qualcuno la possa perseguire. Non c’è il tempo, c’è un tempo personale, intimo, nel quale rifugiarsi, ripetendo parole, frasi, nomi. Lo fanno tutti. L’ex fotografo quasi cieco, così elegante in una sua foto da giovane con i baffi, in impermeabile e macchina fotografica, così elegante oggi, ostinandosi a tentare di vedere ancora attraverso un obiettivo. Colui che fu folgorato dalla lettura di Lolita e che è stato per tutta la vita un uomo che amava le donne, non esitando a sedurre anche la regista, dialogando con lei. Il davanti e il dietro la macchina da presa si liquefanno in questo documentario ad alto tasso di vera emozione nel quale coesistono lacrime e sorrisi, desideri irrinunciabili e goliardie (i due anziani che trascorrono le giornate in ascensore divertendosi a salire e scendere impedendo agli altri di usarlo), dove la donna armena si addormenta mentre è filmata per poi risvegliarsi poco dopo, parlandone con Mizrahi, o un uomo sfiora con la mano l’albero di Natale situato nell’ingresso. Non servono parole, talvolta. E non si dimenticheranno queste persone e neppure i volti degli operai, dei quali non si sa nulla, anonimi e così simili e ognuno differente alla moltitudine di giovani uomini in lavori di fatica ovunque al lavoro. Tutti, i frequentatori del cantiere e della casa di riposo, e gli edifici-set, inghiottiti dalla tormenta di neve che avanza prima fuori campo e poi in campo. Pulviscolo somigliante a sfarfallii di infinite immaginabili costellazioni galleggianti. Ancora una volta, visualizzazione dell’assenza di tempo – come, in altre scene, i due orologi-sveglia con orari diversi nella stanza di uno degli ospiti della casa di riposo o le immagini di programmi vari provenienti dai televisori. Nulla è più databile in questi espansi slittamenti sensoriali.