Winter Brothers di Hlynur Pálmason: fratelli sottoterra e sottozero

Due fratelli, forse orfani, di certo soli, nel freddo dell’inverno del nord, sospesi tra il buio della miniera in cui si spingono a scavare rocce e il bianco della neve che abbaglia la superficie. Una coppia, il solito gioco di libera corrispondenza affettiva che però l’esordiente islandese Hlynur Pálmason spinge istintivamente su codici slapstick raggelati nel paesaggio danese. Winter Brothers ha il ritmo della commedia e il respiro del dramma, in gioco c’è la solitudine che travalica l’appartenenza: a una famiglia, un gruppo, una comunità. Emil e suo fratello maggiore Johan fanno coppia di fronte alla squadra di colleghi con cui scendono in miniera e si ritrovano in superficie: diversi eppure eguali, condividono una casa e un passato che in realtà qui conta poco, piantati come siamo nel loro presente un po’ ottuso. Il dolce perturbante della routine fatta di pietre, carrelli, pale, acciaio, freddo, neve è Emil: vaga poesia in testa e audacia nello spirito che lo porta a rubare dal deposito solventi e quant’altro per distillare a casa una sua birra tutta speciale, da vendere ai colleghi.

Più che un business, un modo per trovare una relazione con gli altri, ma l’effetto alla fine è opposto: qualcuno ne trangugia troppa di quella roba e finisce all’ospedale, senza grandi speranze di uscirne vivo. Emil viene messo all’indice e persino il contatto che lo unifica al fratello viene messo in bilico. Insomma, il mondo di Emil crolla, ma con vaga ironia e un sentimento di sostanziale incoscienza: non c’è senso di colpa in questo elfo nordico, che si confonde con la neve più che col buio della miniera e dei boschi, un po’ Stan Laurel ma anche un po’ Fred Astaire (bella figura quella di Elliott Crosset Hove, lieve e sostanziale). Semmai Emil sente il peso dell’unità infranta con Johan e coi colleghi. E allora lascia scorrere la poesia che ha dentro e il regista lo grazia con un tocco di magia mélièsiana, che lo rende astratto e dolce agli occhi della ragazza con cui Johan si intratteneva.  Pálmason maneggia questi elementi con intuito trattenuto, senza strafare, giocando di fino con la scena, le figure e il suo protagonista. Lo slapstick ha quasi una materica gravità in questa scena che impasta il buio della miniera, l’acciaio delle macchine, le ombre dei colleghi, spiazzato su uno sfondo che, tra rocce, acciaio, freddo, corpi possenti e volti indifferenti ostenta un arco emotivo di sopportazione, svagata curiosità, imperterrita occlusione. Gag improprie per un film che impropriamente fa sorridere e inopinatamente trova un po’ di spiazzante poesia.