Logan: the man comes around

Quanti sono i gradi di separazione tra una croce e una x?  Logan è materia messianica, questione di sacrificio, parabola impetuosa di maestri e allievi, di padri e figli… Un film – anzi un grande film! – che maneggia archetipi semplici e potenti, scaturiti dall’universo della saga marvelliana cinematograficamente più riuscita in assoluto, quella dei mutanti, costruita sulla funzione oppositiva dell’eroe. Wolverine sta nel solco tra accettazione e rifiuto in una maniera molto più problematica di altri eroi, perché è la materia grezza del dissidio, l’inconciliabilità tra natura e integrazione: altroché grandi poteri e grandi responsabilità… In realtà James Mangold, in Logan, tutto questo lo ha già superato, la carne è ormai debole quanto lo spirito, la sua vulnerabilità fa appartenere Wolverine a un mondo in cui il confine tra vittoria e sconfitta è già oltrepassato. L’eroe rinuncia a se stesso nella crepuscolarità di un finale dalle lunghe ombre, distese su un orizzonte che uniforma bene e male. Logan deve la sua grandezza alla determinazione di non risparmiarsi nulla, di spingersi nel declino del suo eroe sino in fondo, spazzando ogni remora strutturale, incidendo il corpo già ferito del suo eroe con il bisturi di un filmare che declina la traccia romantica della fine nella rabbia degli sconfitti.

 


C’è un padre, Charles Xavier, che sopravvive alla sparizione della sua progenie mutante oscillando tra la demenza e l’incredibile potere che gli permette letteralmente di fermare il mondo in un freeze frame mentale. E c’è un figlio, James “Logan” Howlett, che stancamente attraversa giorno dopo giorno il confine tra due mondi (la miseria selvatica del Messico, l’opulenza gretta dell’America) a bordo di una limousine: autista a noleggio per racimolare i soldi necessari a comprare uno yacht, col quale spingersi, assieme al suo vecchio, verso l’oblio. E poi c’è una ragazzina, Laura, generata – non creata – dalla stessa sostanza di quel padre verso il quale ora corre, forza furente della natura (mutante) in fuga da un laboratorio che l’ha messa al mondo con lame d’adamantio. Anche lei vuole raggiungere un orizzonte di oblio, quello della libertà di un Eden forse reale, forse solo letto in un fumetto (disegnato appositamente per il film da Joe Quesada…), in cui ricongiungersi ai suoi simili, giovani mutanti da laboratorio scappati come lei da un padre pazzo come un Mengele. Logan è insomma un film di fughe, a ben pensarci roba davvero poco eroica: l’istinto è quello della sopravvivenza, il diritto a vivere, o meglio a sopravvivere a se stessi, in un mondo che non si conosce più. Tant’è che Mangold non risparmia per nulla i corpi dei suoi eroi, li ferisce senza speranza di rimarginare, li spinge verso il loro destino con una sapienza drammatica degna di quel grande classico che ci sta regalando. Traiettorie di fuga verso un altrove che non è davvero speranza: sognano orizzonti vani e vaghi, questi eroi, attraversano confini (il Messico, il Canada) che annullano politicamente il sogno di un’America già trumpizzata.

La disappartenenza che da sempre segna lo spirito di Wolverine è la matrice di un film in cui la verità è finita già da tempo, un western crepuscolare come Shane (Il cavaliere della valle solitaria) in cui l’eroe che segue il suo destino deve rinunciare a se stesso per apparire nella sua grandezza. Hugh Jackman, eccezionale, suprematizza la sua presenza, la impasta nella materia del filmare infondendo di disillusione il corpo stesso di un’opera quantomai eponima. Mangold, intanto, insiste sulla carne del suo eroe, la duplica nella specularità clonata di un doppio che – inconciliabile, inarrestabile – si oppone nettamente alla sua indeterminazione. Logan, sanguinante fuori (per le ferite che subisce) e dentro (per il male che cova), è il confine tra i due opposti che da quel suo sangue sono generati: una figlia che non ha voluto, la cui fuga verso la libertà cerca d proteggere, e un gemello che ha evocato, la cui furia definitiva cerca di contenere. In mezzo c’è un mondo western, un’America che non è Frontiera ma frontiere (Messico a sud, Canada a nord), un paese senza più morale, che divora come una divinità maligna i suoi stessi figli: allevatori assediati da multinazionali dell’OGM così come turisti a gettone nei paradisi del divertimento. Charles Xavier, dal canto suo, sospinge Logan verso la norma di un mondo che non c’è più, in cui ci si veste come manichini, attraversando una realtà disumanizzata come un brutto film, corpi finti su cui scatena il suo potere mentale, bloccandoli in un fermo immagine che non lascia scampo. Tutto Logan è costruito come un dispositivo duplicante, che materializza l’opposizione tra verità e finzione nella performance assoluta di un Cinema che è consapevolmente “classico”, matrice all’opera su una materia degradata ma fortunatamente ancora umana. E mentre Johnny Cash (“When the man comes around”) ci attende lì, sui titoli di coda, con la sua ballata apocalittica ad accogliere la speranza disperata che una pietra del tumulo si muova, ci si accorge che lo stupore magnifico che ci esalta in questo film è, banalmente, quello di essere di fronte a… un Film. Fatto di carne e di spirito, di materia grezza e pulsante, sofferente, sì insomma di Cinema. Roba da poco, semplice, eppure oggi merce rara: è lui, Logan il Film, il vero mutante in questa storia….