L’utopia senza tempo e senza sbocchi di Captain Fantastic

L’educazione dei figli come una lunga introduzione alla vita, che deve avvenire sul campo. Ben Cash è un ex hippie che rifiuta il sistema e perciò, insieme alla moglie (che quando inizia il racconto tuttavia langue in un letto d’ospedale, rotta da un disturbo bipolare che peggiora di giorno in giorno), si è trasformato in un insegnante arguto ma inflessibile, che del passato da figlio dei fiori mantiene i costumi esteriori ma rifugge la morbida indolenza. È ciò che accade nell’incipit di Captain Fantastic di Matt Ross. Il luogo dove Cash ha cresciuto i sei pargoli (dai 5 ai 17 anni) è una foresta del Nord America, nello Stato di Washington: l’istruzione prevede dunque la caccia al cervo insieme alla conoscenza della Costituzione o della letteratura USA; saper suonare la chitarra è utile al pari dello studio delle lingue; l’economia capitalista va indagata nei suoi principi per essere meglio osteggiata, ma il punto di riferimento filosofico imprescindibile è Noam Chomsky, grande teorico della comunicazione e anarchico dichiarato, di cui la famiglia Cash festeggia il compleanno come fosse un Natale. C’è decisamente una bella storia alla base di Captain Fantastic. E pure un attore assolutamente in parte e carismatico, Viggo Mortensen, con o senza barba. Ma la regia è ruffiana; o, meglio, si accontenta di portare a casa un risultato dignitoso, senza puntare in alto: ci riesce con buoni dialoghi, un pizzico di irriverenza iconoclasta concentrata in un paio di scene collettive dal retrogusto amaro, e una lenta deriva verso un finale rassicurante, che più che la la grazia associata al “vento buono delle cose nuove” che talvolta rischiara il cielo nelle favole, ha il marchio della resa.

Curioso che l’ottimo sceneggiatore e il poco coraggioso regista (comunque premiato a Cannes)
coincidano nella persona di Matt Ross, che vanta un buon passato da attore caratterista e la
recente propensione a stare dietro la macchina da presa. È sua l’idea del film, che muove dalle
autobiografiche difficoltà educative nei confronti dei propri figli, a cui ha mescolato reminiscenze infantili (per un periodo, negli anni Settanta, visse con la madre in una comunità hippie), influenze letterarie (Thoreau, oltre che Chomsky) e pedagogiche (Rousseau, Steiner). Ma il riferimento sotto traccia, che più volte affiora, è cinematografico, ed è rappresentato da Mosquito Coast (1986) di Peter Weir, sceneggiato da Paul Schrader a partire da un romanzo di Paul Theroux. Forse proprio l’accoglienza negativa dell’opera di Weir – in realtà una narrazione potente e visivamente straordinaria, dominata da una furia irredenta (che solo negli anni ha trovato una meritata rivalutazione critica) – ha spinto Ross a introdurre in Captain Fantastic diversi registri in cerca di un equilibrio che non sempre trovano, e che di fatto contengono al minimo il livello di drammaticità della vicenda, conducendola verso le strade rasserenanti del film famigliare, di formazione e del road-movie, con inserti comici e digressioni sentimentali. La figura paterna è un mix di contraddizioni, come in fondo lo era Allie Fox/Harrison Ford nel film di Weir: dittatoriale, arrogante, diretto fino al cinismo. Ma, a differenza di quanto capita al protagonista di Mosquito Coast, il perseguimento inflessibile dell’utopia non deteriora la sua capacità di essere anche un padre premuroso e amorevole. Caratteristiche che rivela gradualmente nella seconda parte della storia, quando il gruppo famigliare affronta un lungo viaggio in (scuola)bus verso Sud, con meta il New Mexico, per il funerale della moglie e madre. Per la prima volta dentro il mondo da cui i genitori li avevano isolati, i ragazzi reagiscono in modi diversi. E il “capitano” verifica in prima persona come la sua ciurma fatichi a confrontarsi con le insidie del sistema, oltre a doverne desolatamente constatare la mancanza di perspicacia associata al candore, e l’incapacità di adattamento. Se tuttavia la famiglia Cash ha risorse interne sufficienti per non sfaldarsi, pur reimpostandosi su modalità maggiormente democratiche (più libertà e meno rigidità; un confronto che avviene non più in termini competitivi, dunque pacificato e meno elettrico), non altrettanto può dirsi del film, che si sfarina lungo sentieri che disperdono la potenza del messaggio e optano per toni agrodolci. Non influiscono più di tanto sul risultato (che resta al di sotto delle ambizioni manifeste) un paio di efficaci scene madri: quando la famiglia è riunita con quella della sorella di Ben, per un pranzo che alterna momenti esilaranti ad altri di inquietante imbarazzo; quando i sette – agghindati secondo le modalità composte e iper colorate di un Wes Anderson che abbia fatto un bagno nell’acido lisergico – fanno irruzione nella chiesa in cui si svolgono i funerali, decisi a far rispettare le ultime volontà della defunta. È piuttosto il momento che precede il finale riconciliato e dolciastro, a regalarci la cosa migliore del film: quello in cui viene allestita la pira su cui bruciare il corpo della donna, in mezzo alla natura, mentre i congiunti cantano Sweet Child O’ Mine dei Guns’N’Roses con infinita dolcezza. Ma è su quella pira che brucia anche l’utopia di Ben Cash, che poi è quella di chi pensa che il sogno di uno debba essere tale pure per gli altri, o perlomeno per i propri figli. Con l’ultima fiammata del rogo si consuma dunque un sogno personale che non riesce a diventare il sogno di molti, o anche solo di alcuni: ciò che segue è altra cosa, ma senza la stessa forza.