Manchester by the Sea – dolore a sangue freddo

Ci sono dei film a sangue freddo, che funzionano non tanto per accumulo quanto per raffreddamento del motore drammatico, sfuggendo all’emotività diretta e lavorando in profondità nei rimandi delle emozioni, tra i resti dei sentimenti, in prossimità con psicologie che stanno rigide nelle loro dinamiche e in questa rigidezza si muovono. Manchester by the Sea è uno di questi: si basa su un personaggio che porta in giro l’abito del dramma cucitogli addosso da Kenneth Lonergan con sapienza sartoriale molto precisa, di scuola teatrale evidentemente. L’azione è dettata da una mancanza del protagonista, da un fallo che ne segna il passato e ne incide i vissuti, in maniera tanto più profonda quanto più lo trova in realtà innocente: almeno di fronte al mondo, se non di fronte a se stesso. Lee Chandler, il protagonista di Manchester by the Sea, è schiacciato da Lonergan nel suo sbiadito presente: è l’handyman di quartiere, stretto nella sua tuta blu, impassibile nel tono mesto con cui lui guarda il mondo e il mondo guarda lui. Lee (che ha l’aria distrattamente malinconica e spavaldamente introflessa di Casey Affleck) spala neve, stura cessi, ripara lavastoviglie, espiando una colpa che nessuno gli rimprovera e che Lonergan ci svela sapientemente, in progressione dinamica con l’occasione di redenzione forzata offertagli da Joe, il fratello maggiore appena morto. L’occasione si chiama Patrick ed è il figlio sedicenne che Joe gli ha lasciato in affidamento, dal momento che la moglie, ex alcolizzata, s’è rifatta una vita altrove e il ragazzo è sempre stato legato allo zio. La situazione avrebbe in sé già abbastanza materia drammatica per funzionare, ma Lonergan è uno che sa offrire ai suoi personaggi e alle loro storie prospettive dinamiche molto ampie, sicché il film lavora sul punto drammatico principale per sviluppare in realtà la dimensione psicologica del protagonista in relazione al suo passato, che viene rivelato per scorci progressivi che irrompono come squarci drammaturgici nella linea temporale principale della narrazione. Non veri e propri flash back, ma accensioni che aggrediscono Lee e rivelano allo spettatore i trascorsi della sua esistenza: la relazione col fratello, la sua vita familiare con la moglie alcolizzata, la scoperta della sua malattia cardiaca;  e poi il passato dello stesso Lee, la moglie e le tre figlie, il dramma che ha bruciato ogni cosa, lasciandolo solo con la colpa della sua innocenza a gestire il resto della sua esistenza.

Sicché Lonergan costruisce la relazione tra Lee e il nipote Patrick come lo scandaglio psicologico in cui un uomo sconfitto dal presente vede confluire il passato e il futuro. Il tutto mentre il tempo sembra fermato sul funerale del fratello, forzatamente rinviato da quella neve che gela il terreno della cittadina sul mare in cui è cresciuto e dove è stato ora costretto a tornare. Manchester by the Sea procede così per approssimazioni al punto focale del dramma, lasciando al protagonista lo spazio per crescere assieme al film, affiancandolo nel lavoro di elaborazione della propria sofferenza. La pregnanza della scrittura (sia drammaturgica che filmica) di Lonergan fa riferimento alla sostanza solida, alle psicologie nette e dinamiche di certo cinema americano dei Settanta: da Pollack a Zinnemann, gli script di Alvin Sargent (Gente comune di Redford, per esempio). Però poi c’è un sottotono emotivo che sfuma le psicologie, lascia solo il protagonista e lo smaterializza in un filmare che sembra volerlo incastrare mentre ne esalta la libertà. La scena del confronto tra Lee e la moglie al funerale di Joe, in cui la sofferenza sembra immobilizzare tutto in un fermo immagine psicologico, è da manuale e racchiude tutta la tensione inespressa di un film che sembra chiuso in se stesso ma ha l’orizzonte salmastro  e libero del mare su cui, galleggiando, si apre e si chiude.