Mistress America e il senso latente di instabilità

Brody-Mistress-America-690Tracy Fishko (Lola Kirke) è una matricola del Barnard College alla Columbia University. È appena sbarcata a New York dalla provincia e coltiva le ambizioni tipiche di una giovane e acculturata studentessa modello: inserirsi nel nuovo contesto urbano, scegliersi le giuste amicizie ed entrare a far parte della prestigiosa società letteraria dell’ateneo. Il suo primo racconto però viene respinto e la vita universitaria si dimostra meno facile del previsto: l’unico amico, Tony, a cui aveva di fatto messo gli occhi addosso, si fidanza con una gelosissima compagna di corso e la solitudine comincia a farsi sentire. Tracy decide quindi di seguire i consigli della madre e telefona alla sua futura sorellastra (i loro genitori stanno per sposarsi) per tentare di trovare un po’ di conforto e compagnia. Brooke Cardinas (Greta Gerwig) è l’opposto di Tracy: una tempesta in perenne movimento che incarna l’ideale figurina metropolitana vagheggiata e inseguita sin dall’arrivo in città. Il suo ingresso in scena avviene scendendo una scala nel centro di Times Square: conosce tutti, parla con tutti, fa mille lavoretti, ha agganci per entrare alle feste giuste, ha opinioni su tutto pur non avendo idee, si muove come una barca che segue la corrente nel mare della vita newyorchese. Le due legano subito, ma già dopo la prima sera Tracy individua in Brooke l’oggetto di un potenziale racconto sulla generazione precedente alla sua, la storia di una donna che dietro il superficiale successo nasconde dolenti fragilità e una vocazione al fallimento.

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L’ultimo film di Noah Baumbach, Mistress America, sembra muoversi libero seguendo due temi forti e paralleli: lo scorrere del tempo e lo sforzo per poterlo raccontare. Già nel precedente Giovani si diventa, Baumbach aveva messo a confronto due generazioni incrinate dallo scarto della contemporaneità. Lì i quarantenni Ben Stiller e Naomi Watts, alienati dai loro coetanei impegnati a mettere su famiglia, credono di trovare una nuova collocazione spazio-temporale adeguandosi ai ritmi e ai gusti di una coppia di twenty-something, Adam Driver e Amanda Seyfried, fino a farsi manipolare nell’impossibile tentativo di fermare il tempo che passa. Una non dissimile frizione generazionale si manifesta anche in Mistress America. In questo caso la distanza di età è minore (Tracy ha diciott’anni, Brooke una trentina: «Ten to twelve years younger, we’re quite contemporaries, ok?») ma l’ansia da prestazione della ragazza, rovesciata dal film precedente in cui gli adulti goffamente si mimetizzavano in un mondo che non gli apparteneva più, si trasforma qui in una sorta di parassitismo a metà strada tra l’ammirazione e la caricatura. Tracy è pervasa dall’insicurezza e costruisce la propria immagine di narratrice seguendo uno schema di consapevolezza e conoscenza. Scrivere di ciò che le succede, plasmarlo secondo canoni mistressriconoscibili, è l’unico modo per governare il flusso degli avvenimenti. Brooke è un’autodidatta («quella parola è una delle cose che mi sono insegnata da sola»), una dilettante in tutto quello che fa e questa sembra essere la sua forza. È uno di quei soldatini che, di fronte alle intemperie, è capace di sfoggiare un sorriso, girare pagina e tirare avanti ma che nasconde, dietro l’apparente frivolezza e l’ampio spettro degli interessi che persegue, un vuoto esistenziale. Pensa di sapere tutto ma non sa niente, crede che tutti la possano amare ma non è capace di trattenere nulla, affetti e idee le scivolano via come sabbia tra le dita. È alla perenne ricerca di una stabilità impossibile e la sua unica ambizione è quella di diventare un riparo, un’ancora di salvezza per le anime vagabonde della città, ipotizzando l’apertura di un locale – che non a caso vuole chiamare familiarmente Mom’s – che dentro di sé sa già irrealizzabile.

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Insomma: è sostanzialmente un oggetto di romanzo, un personaggio prima ancora che una persona. Baumbach cesella la sua storia rimbalzando tra lo sguardo vasto di Tracy – che ascolta, osserva, asseconda, metabolizza e infine scrive, lasciando alla pagina il suo giudizio sul mondo – e il frenetico chiacchiericcio di Brooke, i suoi incontri, i suoi monologhi sempre più scentrati, l’improbabile narrazione (ancora!) di sé che cerca di imporre agli altri. Il film, che nella prima parte segue l’andamento tipicamente indie di certo cinema newyorchese post-alleniano, cambia faccia quando Brooke e la stramba comitiva (Tracy, Tony e la fidanzata) si mettono in viaggio per il Connecticut allo scopo di reperire da un ex compagno benestante i soldi da investire nel ristorante. La villa in cui i personaggi si mescolano fino ad esplodere, come in un maldestro esperimento di chimica, diventa un palcoscenico su cui inscenare – letteralmente – una crudele resa dei conti. Mistress America diventa allora una farsa postmoderna, una versione nevrotica e disillusa delle classiche screwball comedies. Le battute – una sequela ininterrotta di one-liners – e i movimenti si fanno frenetici, la rappresentazione dei conflitti diventa sempre più palesemente il vero motore della storia, che quasi si ferma per osservare la sua messa in scena, il suo surrogato. Brooke sembra frantumarsi, svelando la sua futile tragicità, come se fossimo in un racconto di David Leavitt trasportato dagli anni Ottanta o in una vecchia canzone di Dylan («How does it feels to be on your own, like a complete unknown?») Chi accusa Mistress America di compiacimento autoreferenziale sembra non cogliere l’amarezza dell’affresco. Certo, l’immersione mimetica in un mondo forzatamente á la page – Williamsburg, gli abitini vintage, la colonna sonora electropop – potrebbe suggerire un’adesione a quell’ambiente in bilico tra narcisismo e superficialità, ma l’occhio di Baumbach sembra tagliente quanto quello della sua giovane protagonista: un registratore attento ed empatico, ma perfettamente in grado di smontare e smorzare un entusiasmo che cela un vuoto, un senso di estraneità e inadeguatezza di cui tutti i personaggi soffrono, nessuno escluso. Mistress America, con la sua tutt’altro che rasserenante parabola sulla vita come pura materia di racconto, riflette ancora una volta sull’incapacità di diventare adulti oltre ogni certezza anagrafica, sul tempo come generatore di contrasti e fallimenti che solo l’ordine narrativo può sollevare dal caos. Tutto, nel cinema di Baumbach, porta con sé un senso latente di instabilità: l’amicizia, l’amore, la famiglia, i progetti, il futuro sono uno stato provvisorio a cui guardare con un crescente senso di malinconia e disagio.