Nel corpo del sentire: su RaiPlay Semina il vento di Danilo Caputo

Danilo Caputo è un talento del cinema immersivo, un visionario che dialoga con gli stati d’animo e li traduce in condizioni esistenziali quasi tangibili, forti come una stretta di mano che comunica complicità e incute vigore. Lo aveva già dimostrato con la sua opera prima, La mezza stagione, lo afferma ancora meglio con Semina il vento (in “Panorama” alla Berlinale 70 e presto in sala con I Wonder), secondo lungometraggio di una filmografia di carattere, segnata anche da tre cortometraggi iniziali, belli e determinati (Polvere, Baduryst e Il posto fisso). Anche questa volta si tiene a contatto col suo mondo, quella Puglia (l’entroterra tarantino, per la precisione) da cui proviene e dove ritorna periodicamente, dopo vagabondaggi d’esperienza che lo rendono quell’autore di un cinema che nutre umori europei, prima ancora che semplicemente italiani. L’approccio del suo filmare ha però qualcosa di arcaico, nel senso che dialoga con le risonanze lontane dei luoghi cui appartiene, emozioni che sanno di terra, di sole, di ritualità dimenticate nella modernità forzata di un mondo industrializzato sulla pelle delle storie anziane spazzate via da ruspe e ciminiere (i suoi cortometraggi lo dicevano in maniera molto precisa e già ricca di poetiche trasparenze).

 

 

Semina il vento si proietta sull’orizzonte siderurgico decadente della città di Taranto, dove la giovane protagonista, Nica (la ritrovata Yile Yara Vianello di Corpo celeste) torna dopo una fuga d’amore finita male. Il Salento in cui si rifugia sentimentalmente è quello dell’amata nonna, ormai morta, donna di antiche e magiche tradizioni, tenuta in paese come una sorta di “santona”. Ma la terra che trova è quella avvelenata dai fumi delle ciminiere e degli ulivi malati di xylella. Una realtà stretta nella morsa dei parassiti: le polveri sottili dell’Ilva, i batteri blu che vessano gli antichi alberi, i veleni da sversare nei campi ormai abbandonati, le ruspe che spazzano gli uliveti per accedere ai risarcimenti… Nica torna in una casa dove la madre comprime la sua amarezza in una depressione familiare e il padre annaspa nelle difficoltà economiche e cerca facili soluzioni. Lei reagisce con la determinazione della rabbia, cercando un modo (lei che studia agronomia) per salvare quegli alberi che la nonna le ha insegnato a capire ed amare, ma si trova di fronte una realtà rassegnata: il padre che le dice di lasciar perdere, la madre che preferisce il silenzio, un’amica che sogna rabbiosa una fuga verso un altrove che non conosce davvero ma intanto incide canzoni nella antica lingua arbëreshë del posto (San Marzano di San Giuseppe)… Lo spirito della nonna, forse trasmigrato in una gazza che segue Nica ovunque, veglia su tutto, inutilmente, perché poi il tono che prevale è intransitivo, inconciliato nella rassegnazione: Danilo Caputo fa un film che cerca la speranza in un mondo che ha perso l’empatia, che non sa più sentire l’altro e soprattutto ignora il dialogo costante che la realtà, la natura, i luoghi richiedono.

 

 

E infatti il suo è un cinema ipersensibile, tutto tarato sull’attenzione spasmodica per le sonorità: ambientali, acustiche, musicali. Semina il vento è un film che prima di tutto si fa sentire e vedere, anche al di là di quella intransigenza della struttura narrativa che spesso risulta quasi implosa in se stessa, intransitiva, tendenzialmente acerba (qualche passaggio un po’ troppo abbozzato, alcuni dialoghi troppo essenziali). Il film è un grumo di emozioni trattenute che qua e là esplodono in accensioni visive illuminanti, in cui però manca qualsiasi forma di lirismo, ma c’è tutta l’intelligenza del saper leggere dentro i mondi che mette in immagini. Un film di tagli netti tra calore della luce e profondità delle notti, di immersioni sonore che raggiungono quasi la sensibilità della propriocezione, del sentire il corpo delle cose dall’interno. Un film che si conclude nel segno di una rabbiosa speranza consegnata alla potenza del saper vedere in profondità: uno schermo bianco teso tra gli ulivi nella notte, verso il quale spingersi con la profondità dello sguardo per trovare la soluzione ai mali che ci attanagliano.