Not quite a love story: Chazelle in La La Land

la-la1 Questione di musica, o meglio di musicalità: dopo la norma del tempo (“Not quite my tempo” urlava K.J. Simmons in Whiplash), ecco in La La Land la norma del sentimento, il ritmo cui devono stare dietro i due sognatori in lotta con le loro ambizioni. La forma è quella del musical, come da imprinting per Daniel Chazelle, che torna al recitato ballato & cantato che già aveva tentato nel suo lungo d’esordio, Guy and Madeline on a Park Bench, anno 2009. Ora la prassi è tutta trasversale, in fuga da un immaginario che deve fare i conti con estetiche tra Donnen e Fosse, facendo i conti con i gradi di separazione tra Demy e Coppola… La questione è se crederci o fare semplicemente il gioco del musical: Chazelle vorrebbe stare nella prima opzione, proprio come i due protagonisti del suo film, che sognano un mondo che non c’è più. Lui invece sembra più vicino all’ambizione di Andrew, il giovane batterista di Whiplash, le vene gonfie di volontà per superare lo iato di quel “not quite” che lo separa dalla riuscita. Il talento c’è, i mezzi pure (dopo gli Oscar e gli incassi del suo film sulla crudeltà dei maestri e degli allievi), quello che qui manca è la capacità di cavalcare sino in fondo il dissenso tra lo slancio del sogno e l’ancora della realtà. Ché poi La La Land racconta proprio di questo, l’incontro che si chiama amore tra due sognatori fuori tempo, di cui descrive la volontà e il desiderio, ma ai quali non riesce ad affidare la forza del sentimento.

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L’empatia è chiaramente tutta per Sebastian, ovvero Ryan Gosling, che pesta sui tasti del piano in cerca del tempo appartenuto al jazz, sogna il suo locale in cui dare ancora spazio alle jam session e finisce per abbracciare il progetto musicale di un patinato jazz singer di nome Keith, che poi ha il volto di John Legend… Altra cosa rispetto a ciò che sognava, ma l’amore ha in qualche modo avuto la meglio e Mia (Emma Stone), in fuga dal lavoro di cameriera per dare corpo alla sua ambizione da star hollywoodiana, non glielo perdona. Chazelle mette in musica (ancora e sempre il suo vecchio compagno di stanza al college: Justin Hurwitz) e passi di danza l’innamoramento che scorre sulla traccia di un fuori tempo contemporaneo: parte dalla Los Angeles com’è oggi, fissata nel traffic jam dell’incipit inscenato come un numero musical da manuale che sembra coreografato da Jerome Robbins (non fosse per il malvezzo del piano sequenza…), e arriva alla jam session visiva di una Los Angeles romance, che sembra la Las Vegas coppoliana di Un sogno lungo un giorno, messa lì a raccontare un malinconico altro tempo nelle trasparenze di fondali anni ’50 un po’ vintage. Il film c’è, si fa apprezzare (amare no, troppo studio al fondo…), forse meriterebbe più asciuttezza, il coraggio di evitare l’inghippo del prefinale alternativo. Resta la trama tematica forte di una storia in cui è l’ambizione a scrivere i personaggi, non i sentimenti, senza che ciò riesca a dare forma definitiva all’intero film.