Passengers. Sospesi nel nulla

Un film che finisce proprio quando avrebbe dovuto iniziare. Passengers, che si propone al pubblico come una sorta di fantascienza esistenziale, che riflette sulla sopravvivenza e si interroga sul futuro, sbaglia tempi e storia e dilata il prologo sbilanciando, così, ogni aspettativa. La premessa è che l’uomo ha ormai già colonizzato lo spazio, o meglio, due pianeti distanti 120 anni di viaggio dal nostro, dove l’uomo può decidere di emigrare per ricominciare tutto. A bordo della nave stellare Avalon (e i nomi qui hanno sempre un’origine leggendaria) cinquemila persone hanno deciso di farsi ibernare e compiere la traversata più lunga di sempre, alla volta del pianeta Homestead II (Homestead I è già al completo). Cinquemila persone, dunque, viaggiano addormentate in capsule su un’astronave che assomiglia ad una futuristica nave da crociera, con tutti i confort possibili da offrire ai suoi passeggeri quando saranno svegliati, quatto mesi prima  dell’arrivo. Ma le cose non vanno come dovrebbero e lo scontro con un meteorite provoca un primo guasto che sblocca una capsula. Jim si sveglia e si ritrova solo in un ambiente perfetto, asettico, ricco di possibilità ricreative, ma nessuno con cui condividerle. Si pensa a The Martian, perché Jim, come Mark Watney, sa aggiustare le cose, ma l’illusione finisce presto. Un uomo solo non riesce a sopravvivere, quindi Adamo dovrà svegliare la sua Eva (che in questo caso è Aurora), per fargli compagnia e far passare la paura.

 

Luoghi comuni a profusione, citazoni, sviluppi prevedibili, complicazioni inutili si susseguono secondo uno schema elementare, che non prevede l’approfondimento dei personaggi, descritti solo per quel poco che serve a proseguire la storia. Lui meccanico di terza classe, lei scrittrice annoiata con tutti i benefit, ricordano i protagonisti di Titanic, salvo che manca ogni personalità nello sguardo di Morten Tyldum, disinteressato a tal punto alle loro sorti da farli sfilare, annoiatissimi, come intrappolati in un reality. L’immaginario cinematografico cui attinge, e che potrebbe essere un valore aggiunto, si riduce presto ad una semplice ripetizione in chiave glamour, con una lunga serie di occasioni perse, dalla passeggiata nello spazio alla piscina che sembra sospesa nell’infinito. Nessuna vibrazione, nessuna ambizione per questo film dal budget di 150 milioni di dollari, la cui sceneggiatura (di Jon Spaihts), è rimasta in attesa di essere realizzata dal 2007, quando gli interpreti dovevano essere Keanu Reeves e Reese Witherspoon. Il progetto è passato da allora di mano in mano (tra i candidati registi anche Gabriele Muccino e lo specialista di serie tv Brian Kirk), fino al risultato attuale, formalmente caotico, come se mancasse (e di fatto manca) un progetto coerente alla base. Esibizione di eventi, uno dopo l’altro, tra fantascienza e melodramma, frettolosamente confezionato anche nei dialoghi dei protagonisti, che sembrano sempre di più figurine di uno spot pubblicitario interminabile. Solo alla fine, ma siamo già nell’epilogo, le cose cambiano e scopriamo cosa ci siamo persi. Dopo novant’anni tutti finalmente si svegliano e trovano ad aspettarli un ambiente diverso, con piante e animali ad umanizzare gli spazi asettici dell’Avalon: ecco il film che avremmo voluto vedere, il racconto sulla tenacie e sulla volontà di sopravvivenza, da cui, però, siamo stati esclusi.