Piccole donne di Greta Gerwig e la sostanza dell’affabulazione

Jo March (Saoirse Ronan) è una scrittrice, o almeno si sente tale. La incontriamo nell’ufficio di una casa editrice, intenta a vendere un racconto scritto “da una sua amica”; pronta, nell’inseguire il suo sogno, a sacrificare la morale del suo narrare. Ci vuole un messaggio edificante? Lei è pronta a fornirlo. Le donne nei libri devono essere “o mogli o morte”? Non c’è problema. Il fine, per Jo, giustifica i mezzi e non c’è nessuna integrità da difendere a priori: c’è lo scendere nella vita e prendersela. C’è il festeggiare l’imminente pubblicazione con una corsa per le strade di New York, speculare a quella di Frances Ha, in uno dei pochi momenti rasserenati di quel personaggio sghembo e goffo che animava l’omonimo film di Noah Baumbach. Greta Gerwig colora subito di tonalità apparentemente postmoderne la sua versione – l’ennesima – di Piccole donne, ma in realtà l’aggressione narrativa “in medias res” (il cancellare un incipit tanto famoso quanto canonico per scegliere una strada più tortuosa e programmatica) permette al film di scivolare attraverso le rappresentazioni quasi liturgiche della famiglia March (i rapporti di forza, le preparazioni natalizie, le canonizzazioni dei personaggi) per rimettere in gioco – letteralmente – ruoli e convenzioni. Gerwig affronta con spudorata affezione la sua materia narrativa, mettendo in scena proprio la rappresentazione del narrare. L’avvitarsi tra vita e racconto assume quindi un valore simbolico: la distanza tra ciò che è e ciò che viene raccontato si annulla e si fa carne. È così che Jo March può essere allo stesso tempo ipotetica voce narrante, protagonista della storia e potenziale spettatrice.

 

 

La vita è un romanzo e questo non la rende meno concreta, anzi amplifica un senso di sognante tangibilità, un gusto ipnotico di un’affabulazione che non perde mai sostanza. Gerwig rivisita il testo con rispetto, distanziandosi però dagli adattamenti precedenti nel tratteggio fine delle quattro sorelle. Se la convenzionalità rassicurante di Meg – che vuole amare e ama, sa essere moglie e lo fa con dedizione – fa da contraltare all’irruenza naturale di Jo e alla patologica ritrosia altruista di Beth, è nel personaggio della più giovane delle sorelle March, Amy, che Gerwig istilla i germi di una consapevole modernità. Amy non è la ragazza frivola e vanitosa che ottiene quel che vuole quasi per caso (come sembrava essere Liz Taylor nella versione di Mervyn LeRoy del 1949), ma una giovane donna dalle forti pulsioni attenuate da una razionalità terrena, uno spirito artistico con i piedi ben piantati in terra, che sa desiderare e scegliere, non senza la consapevolezza della nostalgia e della disillusione. Florence Pugh, straordinaria, infonde in Amy le sfumature del tormento, della febbrile ricerca di sé attenuata e solo apparentemente sopita dalla coscienza dei limiti che ruoli e tempi ancora impongono. Meno ribelle e irruenta di Jo (a cui Ronan dona una goffagine androgina che rimanda al “canone” di Katherine Hepburn nell’adattamento di Cukor), ma a suo modo altrettanto rivoluzionaria e irriducibile. Gerwig racconta le quattro sorelle con gioiosa devozione, limando gli eccessi melodrammatici in nome di una solarità che non si perde neanche nei momenti più drammatici. Regala loro un codice relazionale credibile e profondissimo, reso tangibile anche dalla singolare scelta di quattro attrici (oltre a Ronan e Pugh, ci sono Emma Watson e Eliza Scanlen) non statunitensi, come a suggerire una loro diversità dal mondo circostante, una sorellanza che investe anche l’intimità di parole e cadenze. La scelta davvero coraggiosa e personale di Gerwig, più dell’aggiornamento latente di un racconto femminista e femminile che già possiede i crismi dell’universalità, consiste, come già accennato, nella frantumazione della struttura narrativa: come Jo mescola i fogli del suo romanzo per dare senso e forma sempre nuovi, Gerwig rifiuta l’obbligo lineare del tempo, ci getta nel racconto come fosse un’automobile in corsa.

 

 

Salta avanti e indietro, torna alle bambine March dopo che ce le ha fatte conoscere donne, per assaporare meglio il racconto di come lo sono diventate. L’andirivieni temporale inoltre – assecondato dalla fotografia di Yorick Le Saux, levigata verso il pastello nel racconto dell’infanzia e più rigida e asciutta in quello del presente – sembra dare libertà alle protagoniste, non le incasella in un percorso prestabilito, le libera dal rapporto di causa ed effetto che in teoria dovrebbe regolare le loro vite, dona loro il fremito improvviso dell’amore, in primo luogo per se stesse. Ogni attimo è un presente potenziale in cui scegliere il proprio destino, un’occasione da mordere, un treno da perdere. Le sorelle March vivono “adesso”, sapendo che ci potrà sempre essere il tempo del rimpianto – ma, grazie al cielo, non del rimorso – e che ci sarà sempre la possibilità di raccontarlo, come se fossimo in un romanzo. Come se abitassimo in un film. In questo film. Ora, qui, sempre.