Questi giorni di Giuseppe Piccioni. Trovarsi per perdersi

4025C’è un senso di docile amarezza in Questi giorni, un languore da fatalità astratta nelle cose quotidiane, la registrazione della difficoltosa leggerezza delle relazioni, del peso occasionale, ma sempre determinante, delle cose che accadono, un vago senso del tempo presente, dell’oggi, così scollato e disappropriato. Le quattro ragazze che Giuseppe Piccioni stringe nel suo film sono lo stralcio di una narrazione del presente che non ha grandi argomenti e preferisce l’ascolto al dire. Non è facile la via che prende Piccioni, perché non suscita la simpatia della commedia e non attiva gli ingranaggi del dramma altisonante, preferendo piuttosto intiepidire la formula dell’on the road spinto alla fine della giovinezza nello scostante itinerario di queste quattro amiche, compagne di vita e di viaggio dai legami non propriamente radicati. Le tappe sono tutte uno scollamento di relazioni, un trovarsi per perdersi, configurando nell’itinerario il senso finale delle loro reciproche esistenze.

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Lo stesso viaggio a Belgrado, intrapreso dalle ragazze per accompagnare una di loro, Caterina, verso la meta del suo nuovo lavoro, è spinto lungo un tragitto piuttosto vago e si porta dentro la macchia oscura del male che un’altra, Liliana, tiene segreto e dovrà affrontare al suo ritorno. Piccioni, del resto, cerca un equilibrio di valori senza per questo cambiare di segno la visione complessiva che propone: il contrappeso vitale al male di Liliana, offerto dalla gravidanza che Anna sta nutrendo, non è certo un raggio di sole che illumina il percorso, ma non per problematicità pratica, per paure da vita quotidiana, quanto piuttosto per la sensazione che ogni cosa in questo quadro muliebre giovanile voglia dire di languori che stanno lì in attesa, un po’ sordi alle grandi domande dell’esistere, ma pesanti nel loro determinare gli atti e i giorni. Piccioni, che si fa ispirare dal romanzo inedito di Marta Bertini Color Betulla Giovane, costruisce un film che non rinuncia ai suoi difetti (l’istinto maledetto alla narrazione fuoricampo, resistente qua e là; il siparietto del tutto inutile del solito Sergio Rubini; qualche dialogo un po’ troppo scritto…) esattamente come non rinuncia a dimostrare un amore incondizionato per le quattro protagoniste, per la loro indeterminatezza, per il loro dire tutto sommato e per fortuna poco, e dirlo sottovoce, senza sbilanciare mai la temperatura tiepida del film. Lasciando che il film si sfaldi insieme a loro, in maniera dolce e decisa, seguendo lo scontornamento dei luoghi di una provincia indefinita, tanto quanto la visione marginale, di certo non turistica, che offre di Belgrado.