Riscoprendo Reality’s Invisible: a Pesaro si sperimenta il ’68 con Robert Fulton

Nel cinema come nella musica: trovare il punto di contatto tra il frammento e il flusso, tra la nota e l’armonia, è come cercare la goccia nell’acqua. Bisogna essiccare progressivamente il bacino dell’esperienza per rimanere coi piedi bagnati di emozione, dimentichi dell’insieme per sentire la complessità del dettaglio. È un po’ quello che richiede la sperimentazione filmata, il cinema che dice la sperimentazione attraverso il filmare che è esperienza. Ed è quello che potremmo dire ha fatto Robert Edson Fulton III con Reality’s Invisible, 50 minuti di cinema che sperimenta, realizzati nel 1971, a ridosso dei corsi tenuti al Carpenter Center for Visual Arts di Harvard da filmmaker come Stan Brakhage, teorici come Rudolf Arnheim, artisti come Stan Vanderbeek… Agendo con l’istinto di quel temerario aviatore che era (figlio di ingegnere aereo, è poi morto nel 2002 volando herzoghianamente su un vulcano per riprendere un’eruzione…), Fulton con questo raro (nel senso di poco conosciuto, per quanto oggetto di culto tra gli adepti) Reality’s Invisible realizza un oggetto seminale, che stabilisce le coordinate per individuare il punto di contatto tra la prassi della creazione artistica e la sostanza immateriale che è alla base del filmare. (Ri)vederlo oggi alla 54 Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, proposto con vibrante passione da Federico Rossin nella sua bella se/lezione intitolata “Sperimentare il ’68”, significa collocarsi ad un passo dalla sorgente del rapporto simbiotico che il cinema più avanzato (per non dire d’avanguardia, in onore a Marc’O, altro ospite pesarese, contrario alla sonorità marziale di quella categoria…) ha instaurato negli ultimi cinquant’anni con la manualità del filmare, con la concretezza dell’atto filmico. L’aspetto davvero formidabile del film è però la sua straordinaria fluidità, l’armonia virale che trova nel flusso strutturato e organico di immagini d’ogni tipo, poste in atto come esperienza laboratoriale tutta analogica, eppure già sospinta visionariamente a immaginare quello che poi oggi proviamo e vediamo con sguardo digitale. Narrativamente – per così dire… – Reality’s Invisible potrebbe essere descritto come la testimonianza rapsodica e magmatica del rapporto tra insegnati e studenti durante l’anno di corso al Carpenter Center di Harvard, dove Fulton fu invitato dal suo mentore, l’antropologo e regista Robert Gardner.

 

Visivamente, invece, il film è un innesto continuo e reiterato di frammenti, composti come un’armonia, seguendo quell’istinto musicale che il Fulton filmmaker doveva al Fulton musicista (non era raro vederlo nei terminal d’aeroporto intento a suonare il suo inseparabile sax). L’immagine è materia magmatica, fotogrammi rifilmati, graffiti su pellicola, scatti pulsionali nei movimenti di macchina, riquadrature, accenni quasi subliminali, saturazioni cromatiche… Il tutto a cogliere schegge di discorsi, reazioni di studenti dinanzi all’obiettivo che li filma, inserti didattici degli artisti insegnanti. Una struttura filmata degna di quella architettonica disegnata per il Carpenter Center da Le Corbusier. Il punto sostanziale è che Fulton, con Reality’s Invisible, arriva ad immaginare un cinema in cui le immagini sfuggono all’ipotesi comunemente appurata che le vuole destinate a connettere informazioni e comunicazione, per spingersi in direzione di un filmare che è puro movimento, esperienza cinetica in cui la visione è quasi un arto che fa muovere il sapere nella sfera dell’esperienza fisica e nella prospettiva della prassi emotiva.