Seven Sisters, la distopia imperfetta di Tommy Wirkola

Di fronte agli scenari di storie distopiche e futuribili, il pensiero recupera inevitabilmente le atmosfere inquietanti alla Orwell, che nel suo 1984 estremizzò i tratti dei totalitarismi imperanti nel decennio del secondo conflitto mondiale. E in effetti anche in Whath Happened to Monday nel suo titolo internazionale Seven Sisters (Festa mobile, 35° Torino Film Festival) l’idea narrativa affonda le radici in un presente non privo di rischi legati al sovrappopolamento del pianeta e alla conseguente scarsità di risorse alimentari: nel film di Tommy Wirkola il mondo è stato sopraffatto dagli effetti più disastrosi dell’espansione umana, spingendo i governi a imporre una legge del figlio unico per regolamentare le nascite, ibernando ogni nascituro concepito illegalmente. Sette sorelle però – ciascuna battezzata con il nome di un giorno della settimana – riescono a sfuggire a questa repressione, vivendo per anni in segreto e sotto un’unica identità pubblica. Noto soprattutto per il suo grottesco Dead Snow, Wirkola opta questa volta per un registro più misurato e convenzionale, e si confronta con gli schemi del thriller sociopolitico senza temere le ambiguità di una lettura morale poco scontata o prevedibile, che gravita tutta attorno al personaggio interpretato da Glenn Close, la dottoressa Cayman, a capo del Bureau per il controllo delle nascite, donna di potere e profeta della sopravvivenza, convinta che la salvezza della razza umana passi inevitabilmente per soluzioni dure e controverse, come quella di sottrarre i bambini alle famiglie per tenerli dormienti in attesa di un futuro migliore.

Una realtà possibile (basti pensare soltanto alla legge sul figlio unico in vigore in Cina fino a poco tempo fa), che naufraga nella dittatura e della repressione. La sceneggiatura scandisce con precisione ogni snodo narrativo del film e riesce a infondere alla storia, almeno nella sua prima parte, una buona tensione crescente sfruttando la moltiplicazione di Noomi Rapace in sette gemelle educate dal nonno (Willem Dafoe) a una vita riservata e accorta, che però non si rivela sufficiente a tenerle al sicuro. Anche l’unità della famiglia, insegnamento chiave del nonno, tra i temi portanti del film, non si consolida dalle spinte distruttive di una società costruita sul controllo del singolo individuo: così quando Monday scompare, il mistero sulle sue sorti mette in discussione ogni certezza sui legami di cieca fiducia e affidabilità tra le sorelle, ormai adulte. In un clima crescente di sospetti privati, si insinua anche il dubbio che l’operazione salvifica della Cayman possa al contrario nascondere segreti spaventosi, ma la questione etica diventa presto un surrogato accessorio, perché Wirkola si impossessa della storia con un piglio sconnesso che allarga le prospettive del racconto in un’inopportuna deviazione action, che allenta misteri e angosce in una baldoria di esplosioni e mitragliate. Perde così forza anche la rivelazione del doppio inganno della storia, un po’ perché lo scioglimento dell’enigma su che fine abbia fatto Monday è abbastanza decifrabile e un po’ perché, come in ogni racconto distopico che si rispetti, il Bene ha sempre una faccia oscura che prima o poi viene allo scoperto. What Happened to Monday avrebbe potuto essere un ottimo thriller, nella sua costruzione dinamica che si avventura in una vita prigioniera, senza apparenti, possibili vie di fuga: le sette sorelle sono comunque condannate all’isolamento o alla perdita di una identità personale; ma Wirkola non si accontenta di elaborare una problematica esistenziale, spingendo il film verso solo una chiassosa necessità di sottrarre alla storia molti dei suoi personaggi, come fossimo in un racconto celebre di Agatha Christie, in cerca di un colpevole. Così gli intrighi iniziali si smarriscono e resta solo l’eco di un cinema scoppiettante, ma a salve.