Spostare i confini con Richard Linklater

455Per un cinema come quello di Richard Linklater, tutto scandito sulle cronometrie delle età, sulla transitorietà delle stagioni esistenziali e delle epoche, l’affermazione perentoria secondo la quale “frontiers are where you find them”, scolpita sulla lavagna dei maestri,  ha il valore di un topic liberatorio, che ricolloca la vita nel mito fondativo dell’open range, dei territori da attraversare liberamente. Del resto, dopo il transito biografico nei dodici anni di vita scandito in Boyhood, Tutti vogliono qualcosa è un film che ricolloca il tempo cinematografico di Linklater nella sua manifesta natura sincronica, nel senso che si piazza in un momento preciso allo scopo di coglierne la naturale transitorietà, il punto di rottura e l’avventura del passaggio allo stadio successivo, ovvero del crescere. Che quello cantato sulla pelle di Jake e dei suoi compagni di college sia l’epos di un’America che, sulla scia degli anni ’80, sta cambiando, è evidente: questo è un film che nasce sul punto zero di un on the road terminato con l’arrivo di Jake dalle parti di Austin, Texas, a bordo della sua auto, sul sedile posteriore una cassa di LP e un piatto per suonarli. Linklater attiva da subito la sua classica cronologia che scandisce il count down che separa i ragazzi dall’inizio dei corsi, mentre su My Sharona la strada offre un pullulare di culi femminili stretti in jeans aderenti. In realtà stiamo entrando in un labirinto di culture che per Linklater diventa la casa dalle parenti trasparenti  in cui abitare, per l’appunto, senza confini, un open range senza barriere culturali in cui i nostri eroi, campioni di un gioco pensato sulla difesa e sulla conquista della casa base, giocheranno proprio al progressivo superamento dei propri confini.

everybody671

 

Come sempre Linklater lavora sul flusso continuo, sullo scorrimento libero di una dinamica relazionale che scolpisce in velocità le narrazioni dei personaggi, le loro psicologie, le relazioni, i drammi, le crescite a vista, i rapidi dolori… Ed è proprio in questa fluidità che il suo cinema si materializza come testimonianza di una verità umana fatta di elaborazioni multiple, di intrecci culturali, generazionali, emotivi. Tutti vogliono qualcosa è allora il controcampo preciso non tanto di Dazed and Confused (ovvero La vita è un sogno, per le filmografie italiane…), quanto di Boyhood, rispetto al quale rappresenta la visione sincronica, colta in un singolo momento preciso, di quel percorso diacronico scritto sulla pelle di Mason. Il film è inciso interamente nella contemporaneità di un momento in cui Jake e i suoi possono passare dalla disco music a quella country e al punk, dal seducente “shake your body” alla quadriglia dei padri fondatori, sino al pogare liberatorio importato di ritorno dalla ripudiata patria britannica… E questo mentre si attraversa la liberazione lisergica dei Seventies (il cannone lasciato in eredità sull’LP dei Pink Floyd da Willoughby) tanto quanto quell’hard rock dei Van Hallen, traccia eponima del film, che sentiremo bollare da Jake come musica imposta dal sistema…Linklater maneggia il tempo e lo trasforma in un fluido che scorre nelle vene dei suoi personaggi: la cronometria di un divenire che si concede la coincidenza tra fine e inizio come pulsione logica essenziale di una narrazione che è una continua fuga in 43avanti. L’energia che ti resta addosso alla fine di Tutti vogliono qualcosa è la stessa che ti prende alla fine di ogni suo film, e parla esattamente il linguaggio della vita, la tensione che straripa da un filmare lo scorrere delle ore come sfida continua al nostro divenire, come attacco alla casa base dell’avversario nel dialogo muto tra un lanciatore e un battitore… Questo film è un on the road lanciato sulle strade del tempo, attraverso il paesaggio di una vita (sì certo, in senso immediato, di un’America) che è cambiamento: la scrittura filmica di Linklater (esattamente come quella narrativa) è un continuo attraversamento di scenari umani, di personalità forti, elaborata di stacchi continui dei quali non resta traccia se non nella coralità armonica che determinano e nella intima connessione che instaurano. Basti pensare al rappeggiare dei protagonisti in postfinale, al termine dei titoli di coda, che si presentano passandosi la parola in una sorta di outtake reintegrato, destinato ad armonizzare gli shots di presentazione lanciati classicamente poco prima, all’inizio del rullo dei credits. E basti pensare anche a come Linklater risolve invece l’innesto della materia sentimentale portata da Beverly nella vita di Jake, giocando sullo scarto a vista della telefonata in split screen subito rimossa, esplicitamente, per invito stesso della ragazza, dando spazio al contatto, alla connessione diretta tra corpi, parole, storie… Insomma, si tratta per l’appunto di spostare ogni volta più il là il confine del film, di collocarlo esattamente dove stai andando tu, o meglio dove sta andando la vita dei personaggi sulla cui scia sei stato messo. Certo che ci si può addormentare, felici, di fronte a quella nuova tavola della legge incisa sulla pietra della lavagna dal professore di storia: i confini stanno esattamente dove li trovi tu…