The Disaster Artist – James Franco e le assurde rigenerazioni del cinema

La pulsione per la meta-narrazione abbinata al cinema, James Franco l’aveva già dimostrata in passato, in progetti anche molto diversi fra loro, ma sempre accomunati dall’interesse per fortune e disastri hollywoodiani, preferibilmente in quella scena off e underground in cui il talento si mescola all’ossessione e alla provocazione. Si va insomma dalla reinvenzione delle scene tagliate in Cruising (Interior. Leather Bar., del 2013) alla storia di una celebre etichetta dell’home video gay (King Cobra, del 2016, dove era solo attore). Nel caso di The Disaster Artist l’ossessione è quella per un cult poco noto in Italia (The Room, del 2003) asceso alle glorie del “così brutto da essere bello” attraverso la parabola artistica di Tommy Wiseau, erede – nelle intenzioni – dei divi maledetti alla Brando, che con quel film da lui (male) interpretato, scritto e diretto ha lasciato a modo suo l’impronta nella Storia del cinema. Franco interpreta lo stesso Wiseau a cavallo del millennio e ricostruisce l’amicizia con l’attore Greg Sestero, il trasferimento a Hollywood da San Francisco e la realizzazione dell’incredibile “scult”: l’omaggio si fa così consapevole parodia di un sistema glorificato nella sua assurda capacità di rigenerazione, tale da trasformare un’opera pessima in oggetto di adorazione, di cui i grandi del Cinema arrivano a decantare le lodi libertarie nel prologo. Franco mostra una contiguità fra l’alto e il basso (evidente anche nella scelta lucida e consapevole di inserire continui camei di lusso neanche fosse l’opera di un John Landis d’annata) che si ritrova nel legame di interdipendenza fra Tommy e Greg.

Come sempre nel cinema dell’attore/regista californiano, infatti, il gioco sulla narrazione hollywoodiana diventa anche disamina delle dinamiche interpersonali che riflettono una stratificazione di traiettorie emotive. L’assurdità del sistema-cinema si rispecchia pertanto nell’incapacità dei due amici di scindere quel legame animato dalle migliori intenzioni, ma che poi viene inevitabilmente messo alla prova dall’assurda abnegazione di un film che non ha ragione d’essere, se non per l’ostinata convinzione di Tommy di essere nel giusto, contro ogni possibile riscontro logico. Al pari dell’Ed Wood burtoniano, il racconto della caduta di un evidente freak dell’arte si fa perciò partecipe esaltazione di una spinta interiore che avrebbe tutte le carte in regola per essere distruttiva, ma che in ultima istanza si rivela virtuosa: questo avviene attraverso un tono che mescola serio e faceto, si diverte in modo sfacciato a ricostruire gli assurdi tic di Wiseau, ma allo stesso tempo è empatico e sincero nel tratteggio dei legami personali. Il gioco di attrazione/repulsione fra i due protagonisti, ammantato da un’ambiguità che lascia larvatamente intendere una possibile attrazione omosessuale di Tommy per Greg (altro tema da sempre caro a Franco) è ulteriormente ispessito dal fatto che a interpretare i due ruoli ci sono lo stesso Franco e il fratello Dave. La vicinanza reale di due consanguinei per raccontare una storia apparentemente tanto lontana e “piccola”, ma invero capace di dire tanto del sistema nella sua grandezza, lascia comprendere quanto investimento personale ci sia dell’autore nella convinzione con cui ricrea questi scenari “a latere”. Riportandoli nel cuore del sistema stesso, come dimostra la produzione Warner/New Line che si esibisce pomposa in apertura, neanche si fosse di fronte all’ennesimo capitolo del Signore degli Anelli