The Disaster Artist visto da The Room: cronaca di una legittimazione

Ogni epoca ha il suo “peggior film di sempre”: Plan 9 From Outer Space di Ed Wood lo era per i Cinquanta, Trolls 2 di Claudio Fragasso per i Novanta e per gli anni Mille il titolo spetta a The Room, scritto, diretto, prodotto e interpretato – verrebbe da aggiungere “identificato” – da Tommy Wiseau, bizzarro personaggio che ha contribuito, fra eccentricità a sagacia, a elaborare un culto divertito e misterioso della propria persona. L’aspetto peculiare è la particolare dinamica di rifiuto che si trasforma in accettazione per mezzo di visioni-happening in cui il pubblico stesso interagisce con la pellicola, à la Rocky Horror Picture Show. Un movimento “dal basso” che trova poi la sua celebrazione in pellicole che finiscono per legittimare il film così brutto da essere bello, sancendone l’ingresso nella cultura pop del periodo: l’Ed Wood di Tim Burton per Plan 9, il Best Worst Movie di Michael Stephenson per i Troll di Fragasso e ora The Disaster Artist per l’opera di Wiseau. Il biopic di James Franco è particolarmente lucido nel compiere questa operazione, come dimostrano i numerosi camei di celebri personalità hollywoodiane, che mirano proprio a ridisegnare l’inclusione di Wiseau fra le mitologie cinematografiche odierne mentre ne raccontano l’assurda scalata all’insuccesso. La visione dello stesso The Room – inedito in Italia, ma raggiungibile attraverso l’import e le versioni fansub – non fa altro che implementare la vertigine.

 

Se infatti sfrondiamo per un attimo il film di Wiseau dalla sua megalomania autoriale (o presunta tale) che non fa rima con qualità, al fondo la storia è quella di legami traditi che si traducono nella fine di ogni possibile affetto: la vicenda vede il Johnny di Wiseau, improbabile ragazzo con la testa a posto e con un lavoro in grado di assicurare un avvenire alla futura moglie Lisa, tradito tanto da quest’ultima quanto dal migliore amico Mark. Il classico triangolo amoroso è accompagnato da una visione nichilista in cui Johnny diventa il capro espiatorio di un egoismo diffuso: la madre di Lisa non vuole che la figlia perda il “buon partito” e la ragazza in effetti non sembra tanto propensa a rivelargli la verità mentre se la spassa con l’amico. La discesa nel baratro della consapevolezza di essere solo e fuori posto rispetto a un mondo che preferisce misurare gli affetti sulla scala della bellezza e del denaro, porterà Johnny all’unica possibile soluzione del suicidio. L’atroce stile impresso da Wiseau alla vicenda, fatta di estenuanti tempi morti, battute totalmente improbabili, un uso scolastico di campi e controcampi che rimanda alla peggiore televisione, un green screen che riverbera continuamente l’impressione di un mondo posticcio, è sublimata dalla recitazione assolutamente straniante dello stesso protagonista/autore: capace con la sua sola presenza di figurare un’idea di presenza/assenza, Wiseau è una figura tanto irritante quanto tenera, una sorta di scheggia punk in un contesto classico  – è nota la sua passione per James Dean – e iscrive nel film quell’idea del doppio passo che ne fa un’opera comica nella sua sgangheratezza, ma al tempo stesso dolorosa nella vicenda che racconta. Naturalmente questo aspetto sembra essere trascurato nelle proiezioni celebrative, che esaltano l’aspetto trash del film, cavalcato con malizia da un Wiseau intento a godersi i suoi 15 minuti di celebrità, ma che assume una caratura peculiare di fronte al materiale extra filmico che The Room ha prodotto e che ne alimenta la leggenda. Ecco quindi The Disaster Artist, prima libro, poi diventato film grazie a James Franco. Johnny e Mark sono quindi interpretati da Wiseau e Greg Sestero, che nella vita sappiamo oggi essere davvero migliori amici, quasi come se il regista/interprete elaborasse un recondito sentimento di amore/rifiuto nei confronti dell’altro. Particolare, quest’ultimo, che The Disaster Artist fa assurgere a nucleo fondante della narrazione mostrando come la creazione del peggior film non intacca, ma anzi rilancia l’amicizia fra i due, che proprio grazie al loro legame riusciranno a superare l’onta di aver prodotto un capolavoro al contrario. Il che è un cortocircuito formidabile: The Disaster Artist diventa non tanto la creazione del pessimo film, ma il resoconto di un’amicizia che mentre racconta la propria fine si rinnova. L’intuizione geniale, che sospettiamo sia in parte da ascrivere agli sceneggiatori Scott Neustadter e Michael H. Weber, già all’erta su simili temi in 500 giorni insieme, viene poi amplificata dalla scelta di Franco di affidare i due ruoli di Johnny e Mark a se stesso e al fratello Dave, sublimando in questo modo un legame che nel gioco dei rimandi metanarattivi diventa letteralmente di sangue. Materiale quindi ideale per una perfetta mitologia americana, che spiega bene perché The Room e Tommy Wiseau si siano meritati il loro posticino nella cultura pop di questa parte del secolo.