Civiltà perduta, il sogno del sogno di James Gray

Il sogno di un sogno, materia dell’impossibile che resta inafferrabile, miraggio sempre visto e mai posseduto. Il cinema di James Gray (almeno da Two Lovers in poi) è del resto a suo agio in questa temperie, ha sempre camminato accanto ai suoi personaggi cogliendoli nello spazio di un desiderio che è lì accanto, a portata di mano, eppure sempre sfuggente, impossibile, irrealizzabile. Il dramma in Gray si colloca esattamente nell’interstizio tra il sogno del protagonista, la sua eroica attitudine al sacrificio di sé, e la distanza inarrivabile dell’oggetto: noli me tangere, non toccarmi… Percy Fawcett, l’esploratore britannico d’inizio ‘900 protagonista di Civiltà perduta (The Lost City of Z), allunga la mano verso la pietra scolpita che intravede nel folto della foresta amazzonica, ma quella che sembrerebbe la porta della mitica Citta di Z, alla cui ricerca s’è spinto con fervente dedizione, resta un miraggio intangibile.

Un po’ come questo nuovo film di James Gray, a lungo atteso e finalmente offerto al suo pubblico (in Berlinale Special): una sorta di oggetto immateriale, sfuggente, distante da ogni attualità di mercato, una magnifica chimera che consegna la sua energia alla memoria. Lo vedi come fosse un sogno, distante da se stesso, un film d’avventura senza avventura, su un esploratore che esplora solo il  miraggio che cova dentro di sé. Come tutti i film fluviali, anche The Lost City of Z è destinato a trascorrere nella corrente, seguendo la sua deriva verso l’ignoto controllata a forza di braccia. E viene in mente Herzog, inutile dirlo, e insieme a lui il Coppola conradiano, la sua apocalisse vietnamita, la dispersione onirica e tribale di Kurz, che è la stessa cui è destinato Percy Fawcett nella sua dispersione. Ma anche Cimino, nella prima parte, con la ritualità della caccia al cervo (ancora uno in questa Berlinale…), le pose sociali che gestiscono il potere, l’urgenza dell’accettazione, dell’integrazione, che brucia nelle vene di Fawcett e lo spinge a dismettere la divisa e trasformarsi in esploratore per la Royal Geographical Society, partendo per l’Amazzonia. Una prima spedizione, le tracce di una civiltà indigena inattesa, lo scherno della società scientifica e, nonostante tutto, la partenza per una seconda spedizione alla ricerca di quella mitica città che lui chiama “Z” perché è l’ultima, l’estrema scoperta che l’uomo può fare. Gray persegue il sogno del suo protagonista, lo avvolge nella manifattura rigorosamente analogica (c’è pellicola nello chassis e Darius Khondji alla luce) di un film che è tanto fuori tempo – così avanti da essere fatalmente indietro… – da risultare a sua volta un sogno impossibile, offuscato dal suo stesso miraggio (Cimino, appunto…). Come il suo protagonista, il film è fatalmente ad un passo dal suo stesso obiettivo, assente a se stesso come Fawcett è assente alla sua famiglia, alla moglie che lo ama, ai tre figli che crescono in sua assenza. L’eroe sta nella sua distanza dal suo mondo, nella proiezione in un’Amazzonia che poi Gray tradisce nei segni classici dell’avventura fluviale: gli agguati dalle sponde, le frecce che piovono dall’ignoto, gli indigeni che avvolgono nelle loro spire magiche…  L’inizio e la fine coincidono, la caccia alla volpe e la fuga nella foresta, circondato dagli indigeni, spirito da liberare da un corpo che non appartiene più a nessuna civiltà. L’ultima immagine scontorna ovviamente i due piani della realtà, il mito e il mondo, la presenza e l’assenza, la visione e l’astrazione: duplicato del magnifico finale di The Immigrant, mentre il cinema di Gray già si proietta in un’avventura uguale e contraria, lanciata verso il futuro, verso le stelle: Ad astra, storia di un altro esploratore (stellare), di un’altra Z da raggiungere (Nettuno), di un altro figlio che sogna lo stesso sogno del padre…