Torino 38 – Riappropriarsi della città: Funny Face, di Tim Sutton

Forse non è un caso che Funny Face si mostri a noi adesso, grazie alla partecipazione al 38° Torino Film Festival nella sezione Le stanze di Rol – la prima mondiale, comunque, è di qualche mese fa alla Berlinale. Difficile se non impossibile pensarlo infatti in un momento più giusto, quando l’America è al giro di boa di un cambiamento dopo essersi lasciata alle spalle il mandato di Donald Trump (la cui icona fa capolino fra le location girate dai due protagonisti). Perché è il film di cosa si è seminato e cosa è diventata la nazione (e la sua città simbolo, New York) attraverso una visione dal basso, distante dagli skyline iconografici e vicina ai suoi outsider. Sono certamente importanti i due protagonisti, Saul che viene da Coney Island e Zama, giovane musulmana fuggita dalla casa degli zii che avverte ormai come una prigione; ma ancora più prezioso è proprio lo spazio, che interagisce e completa il ritratto di due vite impotenti e perdute, destinate a ritrovarsi nella reciproca appartenenza. Così, i due personaggi li avviciniamo proprio mentre percorrono la via verso casa, accompagnati da carrellate che descrivono lo spazio con urgente fisicità, trasmettendo la forza dell’attraversamento delle arterie cittadine da parte dei suoi corpi-cellula. Perché poi alla fin fine è tutta questione di dove si appartiene e come. Saul è figlio di genitori che stanno per essere scacciati dalla propria casa per far posto all’ennesima opera frutto della speculazione edilizia.

 

 

Zama sogna di ballare, ma indossa allo stesso tempo il niqab come forte simbolo identitario quando è in strada, e disconosce pure l’autorità familiare. In mezzo c’è il terzo incomodo, il Developer senza nome, agente del denaro che tesse la trama delle manovre edilizie, anch’egli in rapporto conflittuale con un padre – Victor Garber, l’ingegnere del Titanic cameroniano, tanto per tracciare altri riferimenti – che ha contribuito a creare la città e ora disapprova quelle mosse generate non dalla necessità di definire, ma dalla brutalità del disfare per accumulare. La dicotomia è in realtà astratta, diluita in un andamento surreale dove l’emotività dei personaggi è immersa in un rapporto platonico fatto della necessità di condividere semplicemente il moto nello spazio metropolitano, come due capillari confluiti nella stessa vena. Più che reagire ai torti con le dimostrazioni di forza (il tentativo di attacco diretto al Developer è anzi fallimentare perché altri sono già intenti a lanciargli le uova), il punto è riappropriarsi di quella città che altre forze vogliono rimodellare, semplicemente vivendola. Ugualmente, però, l’avventura è dolorosa perché questo muoversi è un perenne rispecchiarsi in un mondo depresso. Così, quasi per reazione, come quella maschera ghignante che cade dal cielo, i due outsider finiscono per diventare supereroi loro malgrado.

 

 

E la “Funny Face” iscritta così sul volto altrimenti nervoso di Cosmo Jarvis/Saul (che ricorda un po’ gli antieroi del giovane James Caan) diventa quasi il simbolo di un cinecomic sbilenco, da risposta indipendente al Joker di Todd Phillips. Il balzo non è mera congettura, se Sutton definisce il film una “origin story” di un supereroe in stile fai da te e peraltro dice anche molto di come oggi la chiave di comprensione dell’alienazione contemporanea, di un’America in cerca della sua riscrittura in senso comunitario e non individuale, passi attraverso la sovrapposizione fra il genere popolare per eccellenza e, al contempo, il confronto con la filmografia della New Hollywood. Per questo il dolce convivere di queste anime sole finisce per superare agevolmente la mera aneddotica o lezione teorica per farsi materia viva, modellata sui piccoli gesti di comprensione, tenerezza, ironia che supera le barriere – la risata spontanea di Saul quando Zema per la prima volta è costretta ad abbassarsi il velo per mangiare rivelandole il suo volto. Al quinto film in meno di un decennio (l’esordio con Pavillion era del 2012) e con due titoli che IMDB inserisce già in post-produzione, la carriera di Tim Sutton si dimostra così animata dalla stessa voracità del vivere dei suoi personaggi, urgente nel voler catturare l’attimo del presente e lo spirito del suo tempo prima che fluisca tra le dita, e solida nella capacità di organizzare questi spunti in una trama densa, ben organizzata, ma capace anche di lasciarsi sorprendere dalla verità dei suoi interpreti.