Tornare a vincere: per amore del gioco

La formula è tradizionale e anche un po’ prevedibile: un ex promessa di basket ai tempi del liceo, dopo aver rinunciato ad una carriera da professionista, trova lo slancio per rimettersi in gioco proprio facendo il coach di una squadra liceale tutt’altro che competitiva. Tornare a vincere è un film costruito addosso a Ben Affleck (che ne è anche produttore, oltre che attore protagonista) da un regista, Gavin O’Connor, capace a mettere in scena storie in cui lo sport assume un ruolo metaforico e detta le regole di una narrazione principalmente focalizzata sui personaggi. Così in Miracle, ambientato nel mondo dell’hockey, così in Warrior dedicato, invece, alle arti marziali. La sfida dell’uomo contro sé stesso, il lavorio costante della mente di un uomo, sconfitto dal dolore e tormentato dalla rabbia, nel cercare di risalire il percorso che lo sta portando alla deriva. Jack Cunningham fa l’operaio in un cantiere navale e vive in una sorta di confinamento volontario in una casa disordinata, piena di scatoloni e solo birre in frigo, fino a quando la proposta di allenare la scalcinata squadra della sua vecchia scuola non gli porge una nuova possibilità. Il gioco è quello del riflesso, perché Jack, divorziato e padre di un figlio perso a nove anni, rivede frammenti di sé stesso nei sui atleti, nel giovane prepotente e in quello timido e pieno di talento, ma anche nell’intera squadra priva di un centro attorno a cui ruotare. Senza eccessi retorici, Gavin O’Connor si concentra sul processo di rivelazione del suo personaggio e lo segue con discrezione e silenzio nel suo vagabondare aggrappato alle sue stesse ferite. Nessuna scena madre, niente pathos, ma il semplice procedere dei giorni, gesto dopo gesto, sbronza dopo sbronza e primo piano dopo primo piano.

 

 

La strada del ritorno (come recita il titolo originale The Way Back), superando ostacoli emotivi e tranelli sentimentali. Il segreto di ogni svolta sta nel gioco di squadra, sul campo e sul set, grazie all’equilibrio dello sguardo e del racconto, all’accumulo di dettagli, alla scelta di sottrarre, piuttosto che aggiungere, il silenzio al posto delle parole. Raffinato e immediato l’uso della ripetizione: l’amico del bar che trascina Jack alla porta di casa ogni notte, le birre che passano dal frigo al freezer, le piccole bugie sempre uguali, i gesti per nascondere l’alcol. La solitudine dell’uomo è descritta così, con disarmante tristezza ma senza stratagemmi, e sfuggendo ad ogni regola del genere. Mélo famigliare che scava nelle dinamiche padre-figlio, l’unico vero nucleo attorno al quale si stratificano le sofferenze. Perché Jack ha abbandonato il basket per fare un dispetto al padre e non si concede di smettere di soffrire per la morte del figlio. Sarà facile per lui riconoscere il disagio famigliare di un suo studente e, in generale, porsi con l’intera squadra come un padre severo e giusto, che conosce il gioco e può insegnare loro a riconoscerlo.