Un amore sopra le righe. La manipolazione tentatrice del racconto

Resterà deluso chi si aspetta una commedia francese tradizionale. Un amore sopra le righe, infatti, è tutt’altro, a partire dalla stessa concezione del progetto da parte di Nicolas Bedos (che ne è il regista, oltre che lo sceneggiatore, l’interprete e il compositore insieme a Philippe Kelly) e dell’attrice Doria Tillier, compagna di Bedos anche nella vita. Tutto nasce da anni di improvvisazioni “casalinghe” sui temi dell’amore, della vecchiaia e del tradimento, divenute il punto di partenza per un film. E infatti Bedos, molto noto in Francia come drammaturgo, scrittore e attore, debutta dietro la macchina da presa con una storia non autobiografica ma pensata e ricostruita come se lo fosse, seguendo un metodo diretto di identificazione e racconto. Il contesto è quello a lui noto della borghesia intellettuale parigina, tra discorsi politici e dibattiti culturali, in cui Bedos e Tillier innestano delle ipotesi che, via via, si trasformano in una vita piena di dettagli e piccoli o grandi colpi di scena. Per questo Un amore sopra le righe non può essere semplicemente un film (con tutte le sue forze e i punti deboli), ma è anche un’esercitazione di vita e una performance di cinema che, non a caso, si srotola davanti ai nostri occhi in una serie di lunghi flashback. Si inizia dalla fine, con il giornalista che cerca dettagli per un articolo da scrivere sullo scrittore Victor Adelman nel giorno del suo funerale. Lo accoglie la moglie Sarah nella sua grande casa, e gli racconta due storie, una romanzata e una stringatissima e imprevedibile, in cui i protagonisti si trasformano in modo radicale. In entrambe le versioni, però, sono nascosti frammenti di verità e d’invenzione, necessari l’una all’altro, come Victoir e Sarah, uniti per per 45 anni da un “amore irreversibile”. Ci si accorge che la manipolazione è il centro della storia, lo stratagemma più naturale di ogni racconto, che qui diventa motore di tutte le storie che si moltiplicano collocandosi tutte lungo la linea che separa il vero dal falso. Poiché nulla è mai vero o falso fino in fondo.

Un film sulla scrittura, e non solo perché il protagonista è uno scrittore – e di lui seguiamo l’ascesa, da sconosciuto a celebrato e premiato autore cui tutti fanno riferimento -, ma anche e soprattutto perché non è difficile identificare le tappe del processo creativo che sottendono il film stesso. La scrittura è un percorso lento, che procede per ramificazioni e deviazioni successive, è un continuo compromesso tra soggettività e realtà, tra privato e pubblico, ciò che si cerca di far comprendere e ciò che, infine, si comprende. Il risultato è un film che tende all’astrazione laddove mette in evidenza il lavoro di far rientrare in questa storia brandelli di storie e di rendere universale ciò che partiva da un punto di vista il più parziale possibile. Esperimento che si nutre di se stesso senza mai essere stucchevole, senza compiacersi. Come uno studio psicologico su azioni e reazioni scatenate a partire da un numero limitato di sentimenti. Quelli maschili e quelli femminili, prima di tutto, separati e distinti ed esaminati come dentro un microscopio e poi teatralizzati.