Un giorno di pioggia a New York di Woody Allen, l’eterno ritorno del cinema, unico luogo di conciliazione con il reale

La vita reale è per chi non sa fare di meglio.                                                                                                                                 (Un giorno di pioggia a New York)

La leggerezza e la genialità, il cinema e la musica, la città e il tempo, il passato e il presente, nell’incontenibile, eppure calibratissimo, ultimo film di Woody Allen che ancora, superati gli ottanta anni, ha voglia di mettersi a nudo e al tempo stesso mimetizzarsi tra i suoi personaggi, ha ancora il desiderio mai celato di raccontarsi e lo fa con un film di lampante lettura, al tempo stesso codificato, segreto e pubblico, in cui affida i suoi pensieri ad un giovanissimo personaggio, in una specie di decrescita felice dei suoi alter-ego. Un po’ tutto questo, ma molto altro ancora, è Un giorno di pioggia a New York, parente stretto di Midnight in Paris, con un altro salto nello splendido sogno reale di un possibile al di là, di una eterna immanenza del passato affidando a Chan (Selena Gomez) che sembra uscita da Adieu au langage, l’esplicito ripudio della realtà. Un giorno di pioggia a New York ci immerge, sin da subito, in un’atmosfera affetta da una innata e connaturata malinconia, sin da subito comprendiamo, su un versante strettamente narrativo, che la gita newyorkese dei due giovanissimi studenti, non sarà foriera di quella felicità annunciata e programmata. Il loro percorso sarà accidentato, pieno di imprevisti e di detour, di occasioni e di desideri, di scoperte e di conferme. In quelle poche ore sembra scorrere una vita intera, sembra che nulla possa mutarne il corso. Si ritroveranno trasformati, diversi, inadeguati, distanti e inconciliabili. Nessuna love story, la vita reale o sognata che sia, nel cinema come nella vita, cambia i desideri, trasforma le vite, apre ai compromessi. Woody Allen non ci spiega non intende raccontarci la storia di due innamorati, ma parla di sé stesso, della sua vita, di come avrebbe voluto fosse la sua vita, di come la sua vita in parte è stata. Di come avrebbe voluto lasciare la sua donna seduto al pianoforte, senza gelosia, come un novello Humprey Bogart degli anni 2000. Allen guarda, immaginando questa sua esistenza, sospesa tra il passato vissuto e il futuro ideale, tra le fantasie che per lui è possibile fare vivere sullo schermo, come da una distanza misurata, utilizzando telescopio e microscopio, valorizzando il tempo e mettendo il cinema in primo piano, come mai forse negli ultimi anni.

 

 

È proprio attraverso quei film e l’antica convivenza con quelle immagini che sembrano prendere forma pur restando quasi clandestini inserti subliminali che la sua stessa esistenza sembra prendere forma. Film che sono entrati a fare parte della sua vita biologica e che meglio esprimono quell’ultramondo così rarefatto, fatto di quei gusci straordinariamente vuoti che sono alcuni dei suoi ultimi film, tra i quali questo sicuramente.  Un giorno di pioggia a New York diventa così composita espressione fatta di una rohmeriana parvenza esterna, la brillante confezione dentro la quale la fascinazione del mondo dello spettacolo da parte di Ashleigh (Elle Fanning) come già in Lo sceicco bianco diventa tema deflagrante per la giovane coppia; ma è la stessa Ashleigh a rivivere una specie di incubo notturno che già fu di Paul Hackett nel Fuori orario di Martin Scorsese che aprì le porte ad un immaginario tanto notturno, quanto cinematografico non più riconducibile dentro le coordinate della veglia o di quella che si vive all’uscita di un cinema. Il già citato Casablanca film mentore e guida per Allen che lo porta con sé, come una specie di talismano e di costante vademecum per una educazione sentimentale. È con questo accumulo, solo apparentemente mimetizzato tra le pieghe di una trama che prende due differente direzioni, che Allen continua a raccontarci sé stesso, mettersi in gioco, forse anche ritrovare serenità dopo le vicissitudini del me too. Ma in fondo lo sappiamo, tutto il cinema del regista americano, ha da sempre lavorato sulla propria biografia, facendola sentire storia comune, condivisa o almeno condivisibile su un piano di iperbolica probabilità. Il suo cinema non è stato solo l’emblema di intensi tormenti interiori di un intellettuale della classe agiata newyorkese, ma soprattutto il lamento di un Portnoy, mai soddisfatto di sé stesso, sempre inadeguato e fuori scala. Woody Allen era felice, nel suo passato, quando poteva confondersi tra la folla, quando l’anonimato poteva coprire i suoi vizi. Con il passare del tempo, con gli anni che si sono accumulati, il suo cinema, si è liberato di quella tormentosa “pesantezza” e di quel pessimismo profondo che rabbuiava, a volte, le sue storie, per librarsi leggero in una specie di volta dell’ottimismo. Ecco, quindi, i film stupendamente vaporosi, tanto facili da guardare, quanto sinceri nel loro svolgersi, Midnight in Paris (2011) e Un giorno di pioggia a New York su tutti. Allen prosegue quindi quel discorso ininterrotto che è parlare di sé e lo fa nel luogo più sicuro di tutti, sul set di un film, dove si sente a proprio agio, dove la vita può trovare una salvifica conciliazione. In particolare, con quest’ultimo film sembra solo voltare pagina per proseguire la storia dei personaggi di quello del 2011. Gatsby (Timothée Chalamet) e Ashleigh sembrano due versioni uguali e differenti di Gil e Inez di quel film come vivessero in una specie di labirintica nuova avventura della loro vita immaginaria. E di nuovo questi personaggi, anche se abbiamo notizie certe solo di quelli maschili, troveranno altri compagni per condividere la vita, troveranno quella serenità speciale che solo il rapporto d’amore vero e condiviso può dare. In questa prospettiva questi film restituiscono il realizzarsi dei suoi desideri e il regista/autore/protagonista desiderante sublima con il cinema un’assenza, un vuoto che si è aperto nella sua vita. Sono gli amori perduti e non trattenuti, le differenze incolmabili, gli scandali ad averlo costretto alla solitudine che ricorda quella orgogliosa, dei suoi splendidi single dei primi film.

 

 

Ma quante altre cose accumula Allen in meno di due ore di film, o meglio in un film di meno di due ore che contiene due film compiuti, uno per Gatsby, uno per Ashleigh e il terzo che da questi trae origine, per entrambi, quel film unico che si fa laica trinità indissolubile. Il suo narrare/non narrare si fa ricerca di una asciutta ed essenziale linearità in costante evoluzione. È così che quanto di accumulo narrativo vi era in Midnight in Paris, tanto di assenza vi è in questo ultimo. Un giorno di pioggia a New York, romantico titolo per uno dei più antiromantici suoi film, resta depurato da ogni possibile scoria o sovrabbondanza di racconto, tanto il suo procedere si fa inattuale perfino nella narrazione al presente storico, sospeso come è in quella atemporalità che elimina finanche ogni necessità dell’atto del narrare. Tutto ciò che sappiamo delle storie dei personaggi sta nel fuori campo, non occupa la scena, non infetta la purezza dei personaggi, così magnificamente vuoti e trasparenti, ombre viventi che dallo schermo scendono nelle strade della città, in un rinnovarsi e perpetuarsi della magia di La rosa purpurea del Cairo. Gatsby e Ashleigh, nelle bolle dentro le quali vivono le loro differenti avventure trovano i pezzi delle loro esistenze passate per Gatsby e future per Ashleigh il che raddoppia il valore delle loro differenze. Gatsby rivive il passato e si rivitalizza con lo smog di New York, Ashleigh il futuro, il cinema, Pollard (Liev Schreiber) che reincarna i dilemmi esistenziali del giovane Allen e Ted (Jude Law), come i tanti suoi invidiati amici e conoscenti personaggi dei suoi film precedenti, con matrimoni naufragati e adulteri alle spalle, ma sfrontati, sicuri di sé e così diversi da lui e dalla sua sensibilità e dal suo umorismo autoironico e tipicamente ebraico.

 

 

Di sicuro il cinema per Allen è il luogo del suo eterno ritorno, del gioco infinito tra i fantasmi della sua vita, i suoi se stesso e i sé degli altri, che l’immaginazione del cinema torna a fare diventare reali, come Buñuel o Dalì o Eliot e Picasso, Toulose-Lautrec o Gertrude Stein e i molti altri artisti e intellettuali che solo il suo cinema ha fatto diventare, nelle schegge delle loro apparizioni, veri e umani (Marshal McLuhan), contemporanei in un al di là che non ha tempo e poi New York, Manhattan, il luogo della terra che si fa sinfonia di una città profondamente amata e indissolubile dal genio del regista che, in fondo, non si è mai alzato da quella panchina di Sutton Place Park dalla quale contemplava la sua città, il Ponte di Queensboro e il suo East river, per tutta la notte con la donna della sua vita, in una delle tante, ma forse la più iconica, magnifica intersezione tra vita e cinema che è stato Manhattan.