Un romanzo popolare e contadino: Nel nome della terra di Édouard Bergeon

Quando Guillaume Canet, figlio di un allevatore di cavalli e con un trascorso giovanile nell’equitazione prima di un incidente che lo avrebbe definitivamente dirottato sulla recitazione, vide in tv il documentario Les fils de la terre, pensò che avrebbe voluto ricavarne un’opera di fiction. Si sarebbe invece poi ritrovato a essere diretto come protagonista nell’esordio nel lungometraggio di finzione del documentarista Édouard Bergeon, francese classe 1982, regista di quei “Figli della terra”, nato e cresciuto in una famiglia di contadini. Autore che di questo suo Nel nome della terra (Au Nom de la Terre), di questo film d’après une histoire vraie, dice: «È una saga familiare che vuole dare una prospettiva umana sull’evoluzione del mondo agricolo negli ultimi quarant’anni». Un film molto personale,  autobiografico, dedicato a sua sorella e a sua madre. Dedicato a suo padre. La storia è quella della famiglia Jarjeau: inizia nel 1979 (l’anno in cui il padre di Bergeon è diventato un agricoltore) e finisce nella seconda metà degli anni Novanta. Pierre Jarjeau (Canet) torna a casa dopo un’esperienza negli Stati Uniti. Ritrova il suo amore Claire (Veerle Baetens), rileva la fattoria da papà Jacques Jarjeau (Rufus) che era poco più che un bambino quando aveva cominciato; arrivano due figli, Thomas (Anthony Bajon) ed Emma (Yona Kervern). Nonostante le tante difficoltà, nonostante i debiti, Pierre e la sua famiglia riescono ad andare avanti col duro lavoro, ma le sirene dell’economia globale e bancaria saranno implacabili: l’uomo cercherà così di espandere l’attività, sarà però un punto di non ritorno. Un grave incendio, infine, prefigurerà  il precipizio di Pierre e, con lui, dei suoi cari.

 

 

«Volevo che il film avesse il respiro di un western moderno», afferma il regista.  E in effetti, in questi luoghi – il film è stato girato nella regione francese delle Alpi Mancelles –  il giovane Pierre del 1979 fa ritorno quasi fosse fuggito a bordo della sua moto da un road movie d’America, attraversa a cavallo la scena e l’immaginario, ama la donna che rivede la prima volta dopo tanto tempo come fosse con lei protagonista di un amore sensuale e ribelle, sorride come un attore, come sorride una star sullo schermo. Dura poco, pochissimo, il 1979. Pierre è il protagonista Nel nome della terra che gli appartiene, eppure nelle traiettorie di questo romanzo popolare, contadino, di questo dramma familiare, di questo microcosmo affettivo solido e fragile insieme, si consuma la sua progressiva disappartenenza, si apre uno smarrimento radicale, una vertigine tragica. Il regista, affiancato in sceneggiatura da Bruno Ulmer ed Emmanuel Courcol («È solo verso la fine che ho cominciato anch’io a scrivere qualche scena»), concepisce da documentarista lo spazio, il paesaggio, gli animali, le stalle, i macchinari, il lavoro, le scene di vita rurale, e al contempo designa tutto questo come spazio rappresentativo e simbolico che diventa risonanza tra i legami (e i conflitti, specialmente tra il protagonista e suo padre) dei personaggi. In tale coesistenza che sfuma i tracciati, che li in-forma – nonostante si tratti di un film in cui anche lì dove si potrebbe probabilmente sottrarre, prosciugare, si aggiunge, si addensano impronte di significato –, in questa doppia esistenza che punteggia Nel nome della terra, e che a pensarci bene è la stessa del personaggio interpretato da Canet, c’è l’aspetto più profondo del film. Che è opera politica né per slogan né per ideologia, ma per amore. E forse l’aspetto più affascinante è proprio questo amore critico di Bergeon per la figura del protagonista. E quel finale, quel cortocircuito inaspettato che fa cadere la finzione e porta alla realtà, al “vero” Pierre Jarjeau, ovvero a Christian Bergeon, padre di Édouard, è uno squarcio violento nella prosa chiara e diretta, uno sconfinamento, forse una rivelazione.