Le dinamiche del potere e della persuasione in Peterloo di Mike Leigh

Un giovane soldato si aggira tra gli orrori della battaglia, si guarda attorno attonito, si muove come un automa. Siamo a Waterloo, dove l’esercito inglese guidato dal Duca di Wellington riscrive, sconfiggendo l’esercito napoleonico, le coordinate della geografia politica dell’Europa. Nella scena successiva il soldatino sta tornando a casa, attraversa villaggi e campagne spinto da un istinto di sopravvivenza che non cancella però il trauma che porta dentro di sé. Inizia così, con un pugno di sequenze quasi mute, di pura osservazione, composte nonostante la tragicità degli eventi narrati, Peterloo, il nuovo film di Mike Leigh in cui si ricostruisce, più che un singolo evento – il massacro operato dalle forze governative nei confronti di una folla pacifica di manifestanti avvenuto a Manchester il 16 agosto 1819 – lo spirito di un’epoca di profonde ingiustizie e aspri turbamenti sociali. Il racconto procede per binari paralleli: da una parte la vita quotidiana degli umili, la trasformazione della forza lavoro e la meccanizzazione dell’industria (magnifiche alcune scene segnate dall’ossessivo rumore dei macchinari tessili), la nascita di una consapevolezza politica diramata da oratori – più o meno narcisisti – capaci di istillare il germe del dubbio nelle coscienze della classe operaia; dall’altra le liturgie sempre uguali del potere, sempre pronto a gratificarsi e compiacersi delle proprie gesta, il disprezzo classista e la decadenza morale dei regnanti.

Leigh affresca dei quadri, a volte dei bozzetti, descrive con calma le condizioni di vita, registra il prezzo delle uova e del pane, sottolinea il necessario. Ma, soprattutto, analizza con cura maniacale le dinamiche del potere e quelle della persuasione. Le riunioni dei decrepiti politici pronti a difendere solo il proprio tornaconto sono funeree e feroci; le discussioni tra i riformatori, a volte contraddittorie e confusionarie, esprimono l’urgenza di chi non ha più tempo da concedere alla realizzazione delle proprie speranze. Leigh concede spazi ampi alla parola, segue così l’evoluzione politica di un pensiero riformista che chiedeva diritti e pane. L’attenzione all’uso politico della retorica – a volte vittima anche di un compiacimento egotista – ricorda quella del Lincoln di Spielberg, in cui la vivisezione del dibattito etico e politico raffigurava e coglieva l’intimo spirito del tempo. La separazione classista del mondo è duplicata sullo schermo dall’alternanza dei piani di racconto, che mai si incontrano, ma tendono solo a sfiorarsi. Scorsese, in Gangs of New York, aveva rappresentato benissimo questa incolmabile distanza in una scena in cui i derelitti di Five Points portavano i propri scontri fino alle ricche case dell’Upper Side: le istanze degli ultimi irrompevano nella placida e ricchissima routine dell’élite descritta nel precedente L’età dell’innocenza. Leigh fa un’operazione simile, tastando il polso della classe dirigente quasi stupefatta dalle richieste di dignità del proletariato. Da lì il film costruisce, con ritmo cadenzato, la preparazione al disastro: l’organizzazione del comizio di St. Peter’s Fields e i piani del potere che prevedono un’incondizionata repressione. Nella scena madre del film – in cui la folla terrorizzata viene assalita senza pietà dai soldati a cavallo e dalle baionette della fanteria – si affacciano echi della Potëmkin di Ejzenštejn e del G8 di Genova, in un cortocircuito (politico, culturale, temporale) teso a denunciare il filo rosso, immutabile, dell’abuso di potere e della violenza di Stato. Nella sua parte finale, la più monumentale e forse la meno riuscita, Leigh usa consapevolmente l’arma della retorica: non teme di schierarsi, usa strumenti simbolici chiari – le finestre da cui i giudici guardano la carneficina, dall’alto in basso, come da un loggione di teatro; il trucco decadente del re e il suo disinteresse lascivo; il ghigno crudele dei governanti; l’indifferenza immutabile dei generali in gita di piacere alle corse di cavalli – e guarda con lucido pessimismo alle storture del rigido classismo gerarchico britannico che, proprio con il sangue della folla di Peterloo, iniziò a scricchiolare. Ma gli eccessi enfatici e qualche sbavatura non cancellano il ricordo di quei gemelli campi di battaglia – ugualmente cruenti e con le stesse vittime innocenti – di Waterloo e di Manchester, che fanno pensare a un altro campo di battaglia e a un altro cielo: quello tolstojano di Austerlitz, che sovrasta e consola i feriti e i caduti nelle pagine di Guerra e pace.