Venezia 76 – Delitti e cinecomic: 5 è il numero perfetto di Igort

Era di stanza a Tokyo Igort quando immaginava la Napoli uggiosa e bicromatica di 5 è il numero perfetto. Una città/set che poi negli anni è diventata un emblema, una di quelle iconografie a cui puntualmente torni con la mente mentre assisti sugli schermi alle trasfigurazioni dei vari Gomorra, con annesse parodie che ne smontano e rimontano i codici. Il tutto senza dimenticare mai la sceneggiata, Alfonso Brescia e l’onda lunga delle sparatorie a doppia arma che poi hanno fatto furore fino a Hong Kong. Tutte queste idee Igort le aveva già intrecciate, sviluppate e recuperate sulla pagina durante gli anni Novanta, in quell’asse Tokyo-Napoli già citato. E ora le riporta al luogo che idealmente possiamo considerare suo malgrado d’origine e d’arrivo, il cinema. Portare sullo schermo quel capolavoro del fumetto è operazione tutt’altro che perfetta: proprio perché l’immaginario in un certo qual modo è già stato sfruttato a dovere. E anche perché 5 è un’opera avanguardista, composita, che mentre aderisce a un genere ne crea un altro, con i suoi intrecci di realtà e onirismo, commozione e ironia, amore familiare “piccolo” e guerra di mala “grande”. Tutte caratteristiche molto nette, che il medium disegnato permette però di fondere attraverso un approccio più liberamente stilizzato e capace di trasfigurare le singole parti nella zona grigia (o meglio azzurra) del tutto, creando una particolare alchimia che rende quell’opera tanto riconoscibile quanto inafferrabile.

 

 

Igort, va dato atto, prova a ripetersi, componendo una pellicola che è affine a quella disegnata mentre la reinventa: espunge dal testo le porzioni oniriche, i sogni di Peppino Lo Cicero, ex guappo costretto a tornare in pista dopo la morte dell’amato figlio che ha seguito le sue orme di un tempo. E sebbene scelga un’iconografia molto distante dalla trasfigurazione e – con buona pace delle intenzioni – puramente cinecomic, cerca di trovare una nuova chiave di stilizzazione. Lavora bene con gli spazi e i giochi d’ombra per creare un inusuale (per gli standard italiani) modello di espressionismo, mentre la struttura narrativa segue in maniera quasi pedissequa quella del fratello maggiore cartaceo (i “disegni” dei capitoli sono anche ricreati fedelmente). E, qui c’è l’aspetto più interessante, sfrutta il tempo trascorso dall’originale per inglobare nel modello nuove suggestioni: l’uso del suono e delle dilatazioni temporali, infatti, porta in dote nuovi collegamenti nella memoria, chiama in causa l’action che dai kung fu movie d’annata (citati anche nel fumetto) porta fino all’action pirotecnico di John Woo e Michael Bay (bellissima e già notata nel trailer la citazione da Bad Boys 2). L’ambizione in questo senso è palese: creare un noir postmoderno digeribile anche dalla controparte cinematografica come possibile lavoro di ricognizione e reinvenzione dell’insieme di sottofiloni prosperati sul seme fornito dalla sceneggiata napoletana. Resta però un certo fondo di straniamento: l’approccio visivo cartaceo, nella sua forza espressiva evocava comunque una certa leggerezza, quasi una sorta di “facilità” del farsi della storia. Un agire sicuramente molto “pensato”, ma che appariva invece istintivo, libero. Viceversa il cinema porta in dote una matericità e una pesantezza evidenti. Si rinnova così la sensazione di un equivoco perdurante in un’industria che continua a vedere nelle trasposizioni dai fumetti l’unico genere in grado di offrire libertà espressiva, laddove invece è troppo limitato da una filiazione che riduce gli spazi di manovra. Un film insomma che sembra suggerire una trasfigurazione che si compie solo in parte, che a tratti ricorda lo sfortunato Dick Tracy ma con un piglio meno ispirato (qualcuno ha evocato anche confronti con Sin City), affine a quel naso finto appiccicato sul volto comunque riconoscibile di Toni Servillo. L’attore napoletano si dedica al ruolo con partecipazione, ma la recitazione al solito avara di aperture palpitanti inficia molte buone intenzioni. Meglio un Buccirosso che accetta un ruolo di secondo piano o, ancor più, una Valeria Golino che conosce sicuramente la recitazione istintiva, regalando alla sua Rita una maggiore presenza rispetto alla controparte disegnata. Presentato alla Mostra di Venezia 76 nelle Giornate degli Autori.