Joker di Todd Phillips e la ricerca di autorialità

Todd Phillips getta la maschera. In tutti i sensi. Si toglie di dosso l’etichetta di commediografo e si avventura nel cinecomic trasfigurando il genere in un film di autore. O almeno, queste sono le sue intenzioni. Basta infatti poco per capire di quanta New Hollywood si sia nutrito il regista, evidenti i richiami estetici (e non solo) a un’America in pieno mutamento, incapace di accettare il diverso e che non ha paura di sporcarsi le mani raccontando della faccia sporca e cattiva della medaglia. A partire dal suo protagonista, un reietto emarginato costretto a fare i conti con una spirale di violenza (prima psicologica, poi fisica) che lo trascinerà verso quello che tutti chiamerebbero baratro mentre per lui è una vetta irraggiungibile. Joker è prima di tutto la parabola di un individuo solo e incompreso, di come ne abbiamo visti tanti fuori e dentro lo schermo. Eppure Phillips non può far finta di niente, non può trascurare la fama del personaggio e le origini fumettistiche del suo (anti)eroe. Allora decide di lavorare di fino, in punta di piedi. Si addentra nella materia poco per volta instaurando con il pubblico un dialogo accomodante e provocatorio al tempo stesso.

Il film segue infatti le orme di un classico “primo capitolo”. Ne abbiamo visti tanti, soprattutto ultimamente. Quasi tutti i supereroi a cui è stata dedicata una saga cinematografica erano focalizzati sulle origini del mito. Ecco dunque che Phillips ci mostra l’uomo prima del villain, Arthur invece di Joker, il suo volto al posto della maschera. Il doppio, la ferita affettiva covata nel profondo della sua storia personale, il simbolo di rivalsa e il consenso popolare non tarderanno a palesarsi, esattamente come tutte le avventure delle saghe più classiche. Seppur il taglio sia autoriale, il mercato vuole la sua fetta. Phillips lo sa bene e scende così a compromessi porgendo in pasto al pubblico ciò che il pubblico è abituato a masticare. Il problema, o meglio la sfida provocatoria, è che qui si parla di un cattivo molto feroce. Il fascino del Male attirerà Joker verso gli abissi, così come la folla sarà attratta verso il nuovo paladino e il pubblico in sala empatizzerà per l’omicida ritenendo il magnate Wayne un farabutto da odiare. Il cambio di prospettiva viene quindi mantenuto anche da un punto di vista estetico. Ecco perché Phillips sradica il blockbuster per firmare un dramma metropolitano che molto deve al cinema di Martin Scorsese. Un’operazione sicuramente curiosa, coraggiosa e affascinante. Eppure è proprio questo il problema principale del film, non riuscire a concretizzare ciò che potenzialmente era riuscito a elaborare. Il Joker di Phoenix (bravo, ma eccessivamente sopra le righe) è un freak poco umano, che vive i suoi turbamenti psicologici al massimo grado così da rendere meno temibile la parabola discendente a cui è destinato. Non è un caso che le sequenze migliori, quelle più cupe e terrificanti, siano le uniche giocate sulla sottrazione (l’incontro con il piccolo Bruce, l’addio alla madre in ospedale, il dialogo con il nano). Phillips carica il suo film con ralenti estremi, luci patinate, carrellate incessanti e una colonna sonora sovrabbondante, rendendolo meno sporco e grezzo di quanto sarebbe dovuto essere. Non il lungometraggio che si immaginava potesse essere, ma sicuramente un film da cui si può e si deve ripartire per una nuovo corso.