Durante TWIN PEAKS

All’inizio si è piuttosto soggettivi, ma poi ci si accorge che questa soggettività è controllata dall’esterno, e allora si cerca di assumerne nuovamente il controllo, per risultare alla fine oggettivamente soggettivi, per controllare l’oggettivo e poter dare via libera alla propria soggettività. E poi ognuno si lascia andare alla propria soggettività, così come, se io sono uno spettatore, ho la mia che devo poter conoscere e riconoscere con le immagini. (Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, 1980).

Mulholland Drive ci lasciò in un simbolico 2001. In un teatro dove una donna imponeva un attimo di silenzio. INLAND EMPIRE ruppe cinque anni dopo quell’assenza (di suono, di presenza) con una puntina di grammofono che frusciava scorrendo su un microsolco 78 giri. E subito dopo, con due voci su corpi indecidibili dai volti sfocati ad hoc che si chiedevano (in polacco) “Dove siamo?”, rispondendosi “Cerco un’entrata”.

 Is it future? Or is it past? Era già LA domanda.

Poi, il set familiar-funereo dei Rabbits impegnati a recitare battute indecifrabili di una sit-com scritta da Ionesco, tra le matte risate (registrate) di un pubblico invisibile Quindi, lo sguardo piangente e perso di una donna che guardava alla TV qualcosa che avrebbe potuto perfino già essere il film che anche noi stavamo vedendo (o tutti i film che non avevamo mai visto). In cinque minuti, forse meno, Lynch faceva precipitare una prima (certo non l’unica, ma forse la più importante) indicazione di senso: il cortocircuito tra la più antica idea di riproducibilità tecnica dello spettacolo e lo scintillio sinistro e ai tempi (sembra passato un secolo) inusuale del digitale, suggerendo già il mezzo con cui il pubblico del futuro (il futuro è un infinito presente; il futuro è un eterno ritorno di un passato dimenticato) si sarebbe ritrovato a dover fare i conti per affrontare nuove/vecchie visioni (e revisioni) adombrando logiche eccedenti la fruizione del cinema sino ad allora comunemente intesa (ingresso in sala/condivisione esperienziale con l’altro da sé/ritorno a casa).

Lo spettatore come  monade. Lo è sempre stato? Lo è diventato? E’ stato costretto a diventarlo? Poco importa. Anche noi cerchiamo un’entrata, in Lynch: da sempre. Anche Lynch cerca un’entrata in noi. Ancora.

In INLAND EMPIRE, la traccia narrativa correva lungo la realizzazione del remake di un film “maledetto”, su cui premevano presagi oscuri e la cui lavorazione s’interruppe per la morte violenta dei protagonisti originari. E mentre la star designata a interpretarlo cadeva nelle braccia del partner (entrando in parte) realtà e finzione si disintegravano, si compenetravano, si avvolgevano, scomparivano, morivano e rinascevano. Film nel film nel film, cinema nel cinema nel cinema, e una rosa è una rosa è una rosa. Scatole cinesi piene di nastri di Moebius che contenevano altre scatole cinesi; storie compenetrate e falsamente parallele, destinate a sfaldarsi e ricomporsi.

In dreams I walk with you.

Non è un caso che dopo INLAND EMPIRE non ci sia più stato (e mai ce ne sarà un altro) un film di Lynch destinato alle sale cinematografiche. Il cammino del cinema finiva lì, per ricominciare altrove. Era dal deriso (ma quanto clairvoyant) Fuoco cammina con me!, costola (o prova generale a posteriori) dell’esperimento estremo di contaminazione tra pop di massa e sperpero d’Arte  che furono le due stagioni originarie di Twin Peaks, che Lynch era lanciato verso l’implosione mentale terminale di INLAND EMPIRE: un oggetto che è stato da sempre fin troppo semplice indicare come summa, o come punto d’arrivo (e quindi, fatalmente, come oggi appare, d’inizio) del suo cinema. Un cinema, è bene ricordarlo, da prendere tremendamente sul serio solo dopo averne riconosciuta la serissima, disturbante e mai sotterranea giocosità leggera che lo innerva. In INLAND EMPIRE si sanciva definitivamente l’inutilità della lettura, il tentativo di raccapezzarsi nel labirinto della sceneggiatura (scritta giorno per giorno, senza che nessuno sapesse in che ordine le sequenze sarebbero state montate); si portava al punto di non ritorno il gioco sulle identità e sui frammenti, si portava l’espansione frattale della narrazione e della costruzione spaziale a livelli di vertigine inauditi, definitivi. Come se il cambio d’identità maschile e lo sdoppiamento femminile di Lost Highway (o la specularità omoerotica della coppia di protagoniste di Mulholland Drive) precipitassero all’interno di un unico corpo (Laura Dern) che era infiniti corpi, infiniti personaggi e infiniti (quindi un unico) film.

 

INLAND EMPIRE era il prequel del “nuovo” Twin Peaks. Il “nuovo” Twin Peaks è l’Heimat mentale di Lynch.
Hello-o-o-o-o-o-o!

Ma anche.

INLAND EMPIRE stava a David Lynch come 2001 stava a Stanley Kubrick. INLAND EMPIRE era “il” 2001 di Lynch. Dove all’odissea nello spazio si sostituiva un’odissea nella mente, va da sé: e nella sequenza dell’incontro/annullamento finale fra attrice e spettatrice, entrambe compresenti a sé e in qualche modo doppie e “interne”/infinite allo sguardo e agli schermi che le ospitavano, il ponte con l’auto-agnizione terminale dell’astronauta Rob Bowman nella chiusura di Kubrick era netto, visibile, argenteo, incontrovertibile, luminoso. Un viaggio nel monolito dell’inconscio, definitivo e speculare a quello psichedelico nel lastrone nero, nell’unica quarta dimensione possibile del postmoderno (?). Non era l’unico evidente (ma non esibito) punto di contatto con Kubrick: ce n’erano altri, da Shining a Eyes Wide Shut, per chi aveva saputo (non) vederli, per chi vorrà (non necessariamente) tornarci.  Il cerchio si chiudeva. [Il primo ammiratore di Eraserhead, del resto, fu proprio Kubrick. E chi volesse provare a ri-vederselo, oggi, avrà più di una sorpresa]

Il “nuovo” Twin Peaks è la Terra vista dal feto rigenerato di 2001. Lo sguardo. Lo stupore. L’infanzia.

 

Twin Peaks (il nuovo/vecchio/eterno Twin Peaks) reitera il vecchio (nuovo/eterno) peccato d’ego lynchiano che i detrattori da sempre gli imputano ai “danni” del pubblico; ma anche l’idea, tutta felliniana in fondo (e Lynch è un grande ammiratore di Fellini: me lo ha detto lui stesso nel 1990 a Cannes mentre a mezz’ora dall’inizio fuggiva –giustamente?- infastidito e annoiato dalla Lumière in cui aveva luogo la proiezione ufficiale di La voce della luna), che il limite del reale si possa cogliere solo sospendendo la veglia. E se all’epoca di INLAND EMPIRE il digitale per Lynch era lo stesso MiniDV con cui io e voi giravamo i nostri filmini, ed era il mezzo più funzionale per far meglio aderire l’orrore, l’inquietudine e il surreale al quotidiano oltreché un supporto che consentiva una elevazione e allo stesso tempo un’omologazione paradossalmente antitetiche e coincidenti del cinema [per dimostrare che Hollywood, a ogni livello della sua percezione, non è mai stata altro che una fabbrica d’incubi e morte -al lavoro, ovviamente- un vampiro del mondo; che non vi poteva più essere scarto percettivo tra set e vita dacché l’immagine elettronica spolpava con la medesima freddezza breaking news, reality e fiction], il neo-digitale televisivo ad alta definizione del Twin Peaks 2017 è il riflesso/riflessione su quel presente/futuro/presente di segni e tempi di fruizione impazziti che è la vera lost highway dei nostri tempi. Non c’è nulla di nuovo nel “nuovo” Twin Peaks, a eccezione dell’intuizione-cardine per cui la “vecchia” Twin Peaks “manca” a Twin Peaks nella misura in cui da luogo di narrazione si è trasformata in uno sconfinato luogo mentale.

Ovunque è Twin Peaks.

Quindi, per note sparse: l’ossessione per il sezionamento seriale dell’esistere; l’età dell’innocenza degli anni Cinquanta (lo spettacolare cameo di Michael Cera/Wally Brando nel quarto episodio) che riaffiora quando meno te lo aspetti, come e più che in Velluto blu o Cuore selvaggio; il potere di quel design sonoro (nelle sue forme shock più grossolane, nella musica ormai interiore del fido Angelo Badalamenti, nelle chiusure pop al Bang Bang Bar, ma anche nei filamenti più subliminali in grado di portare l’inquietudine o  il terrore a livelli improvvisamente non sostenibili), e la quasi-sordità ovattata e rovesciata dell’impossibile ascolto del sogno (lo abbiamo sempre sospettato, ma quanto siamo convinti oggi che l’orecchio mozzo in giardino di Blue Velvet altro non sia che il corrispettivo lynchiano dell’occhio tagliato di Un chien andalou?); la convinzione che il cinema tradizionale (o forse il cinema, e basta) abbia definitivamente fatto il suo Tempo; la possibile messa in immagini delle scorie della meditazione trascendentale che Lynch pratica da quarant’anni; il (post)cinema come scrittura automatica; Jean-Luc Godard, Walter Benjamin, occhi apertichiusi;

 

E l’amore. Perché staremo a vedere poi come finirà con l’amore.

L’amore come eterna pulsione e primo motore: tutto il cinema di Lynch è cinema d’amore.

E la paura. Che divora. La paura peggiore: quella di guardare, e di vedere, e di capire.