Twin Peaks 3. Cubicoli

Siamo oramai (ritornati) du côté de Lost Highway, slargato però attraverso l’esperienza dilatativa di Una storia vera; cioè, alla fine, dalla parte di Mulholland Drive, forse il congegno di dispersione, vaporizzazione (delle storie, degl’io, del mondo) più perfetto, più perfettamente in-compiuto di David Lynch, perchè (a proposito dell’ “in”) questa polverizzazione (lacaniana: disintegrazione del soggetto) è sempre, non può che essere, in itinere. Oltre al congegno blu, scatola che inghiottiva ed emetteva sogni, figure, caos, ma tutto perfettamente consequenziale in Mulholland Drive, mi appare l’accrocco nascosto nel sottoscala di Sang Sattawat di Weerasethakul (uno dei grandi film del nuovo millennio), che vaporizzava il cinema, lo autentificava in quanto sostanza sfuggente, cangiante. E ora il cassone di vetro di questi primi due episodi-capolavoro di Twin Peaks3, dispositivo entro cui presumibilmente si svolge Twin Peaks, quest’ente sbilenco, evaporante eppure ineffabile che è il filmato, e che segna una volta per tutte, per riflessi, aloni sul plexiglass, silenzi, tempi dilatati, la distanza dalla seconda, corriva stagione.

Qui fermentano all’improvviso le ombre, dopo una laconica cristallizzazione del vuoto; si fanno nudi ossessi attratti dall’odore del sesso: i due ragazzi che fornicano sul divano e così suscitano i lemuri provenienti dalla loggia nera, gli stessi protagonisti dell’orgia in cui era morta Laura Palmer. È sempre sul piano sessuale (con tutta la sua catena di simbologie, allusioni, mitologie) che si può spiegare, anzi motivare, il sorgere del sogno e cioè del cinema (di Lynch), come le figure nude e diafane d’Un Chien Andalou (là dove questo sogno era cominciato) apparenti e frementi, bianche, diafane su sfondo nero, in quel cubicolo aperto a un al-di-là (oltre il visto, serraglio di forze che premono ai limiti del virtuale per farsi forme); le quali incarnavano il desiderio di un oggetto perduto, evaporato, che non può che esprimersi sul piano linguistico, simbolico, immaginifico: cinema appunto, ed eros. E l’automatismo delle associazioni oniriche è perfetto, contingente (nessun non-senso, ermetismo gratuito, ma concatenamenti di rimandi, indizi, prolessi, sdoppiamenti, ecc.), come quello funzionante nella/dalla scatola blu di Mulholland Drive, storia d’amore saffica evocata attraverso pre-figurazioni che mentre si incastrano, si attraggono facendo il film, evaporano. Entro questi dispositivi non c’è da capire nulla, ma si sa fulmineamente ciò che (non) si sa reconditamente, da sempre, da dentro, alla scatola.