Berlinale pallida madre

Fuocoammare-poster-locandina-2016Berlinale, pallida madre. Cosa resta di questa sessantaseiesima edizione di un festival che sembra sempre il resto di un modo di intendere le kermesse ormai in via di estinzione (vedi Venezia), ma che d’altronde appare davvero l’anteprima dell’avvenire del sistema festivaliero mondiale? Non siamo a Cannes, dove l’autorialità griffata impera; non siamo a Venezia, dove si lavora sul versante di una cinefilia ormai un po’ desueta ma sempre capace di sorprendere; non siamo a Locarno, dove invece si lavora sulle emergenze estetiche e di ricerca di un cinema giovane e meno giovane… Siamo alla Berlinale, che, com’è noto, l’identità se la gioca tutta sulla sponda del cinema a tematica storica e sociale in linea con le attese di un mercato d’essai. La qual cosa rappresenta la sua forza, ma anche la sua debolezza, ché non sempre è facile incorrere in film e autori capaci di lasciare il segno in questo campo. Non a caso, sin dalla vigilia l’Orso d’Oro a Fuocoammare pareva una scommessa sin troppo facile da vincere, fatte salve eventuali sorprese che infatti non sono arrivate. Così come si è partiti con nel bagaglio lo spazio necessario a riportarsi a casa le magnifiche otto ore della storica proiezione di A Lullaby to the Sorrowful Mystery, capolavoro di Lav Diaz che aveva in tasca il Premio Alfred Bauer per le nuove prospettive che infatti poi ha vinto.

A Lullaby to the Sorrowful Mystery
A Lullaby to the Sorrowful Mystery

Il punto è che, a differenza dello scorso anno, Dieter Kosslick ha incasellato un Concorso alquanto deludente, prevalentemente pallido, e le ragioni vanno ricercate proprio nel range d’azione che il suo festival si riconosce: stiamo in un contesto che oscilla tra vettori di sistema mossi da programmi di sostegno produttivo internazionali, intrecci di poteri forti che investono su film che si reggono sul nulla (vedi i pessimi Soy Nero di Rafi Pitts o Boris sans Béatrice di Denis Côté, entrambi autori da cui ci si doveva aspettare molto di più), indicazioni dinamiche di giovani autori cresciuti nei vivai di rappresentanza del cinema internazionale (il polacco Tomasz Wasilewski, controfigura senza genio di Xavier Dolan, premiato per la sceneggiatura del vacuo United States of Love). La carta americana, Kosslick se l’è giocata sull’asse dei fratelli Coen, in apertura chi-raqcon il divertito Hail, Caesar!, e del ritorno al proprio cinema di Spike Lee con l’eccezionale Chi-Raq griffato Amazon.com: Entrambi erano rigorosamente fuori concorso, a far da sponda nella competizione al duetto tra due film molto più classicamente da Berlinale: l’accademico e letterario esordio di Michael Grandage con Genius (che non è valso nemmeno la pena di un premio agli interpreti Colin Firth e Jude Law) e il nuovo lavoro dell’ancora e sempre promettente Jeff Nichols, Midnight Special, sicuramente tra le cose migliori della  concorso, per quanto un po’ residuale per immaginario e istanze. Dal versante opposto la selezione ha lavorato su un cinema esteticamente molto alto, proponendo, oltre al citato Lav Diaz, il portoghese Ivo M. Ferreira di Cartas da guerra, intrusione letteraria mentale nell’epistolario d’amore e di vita dal fronte coloniale angolano del quasi Nobel per la letteratura Antonio Lobo Antunes, e il cinese Yang Chao di Crosscurrent, altro film fantasmatico, scritto su un testo lirico che svapora lungo il corso del fiume Yangtze, premiato per la fotografia di Mark Lee Ping-Bing. C’è poi stato il versante delle conferme, prima fra tutte quella di Mia Hansen-Løve, che con L’Avenir (premio per la regia)

 L'Avenir
L’Avenir

ha intuito le minime variazioni d’identità di una donna che col procedere degli anni va in perdita di sicurezza. Per non dire dello stato di grazia di André Téchiné, che in Quand on a 17 ans ritrova il conflitto delle età giovanili e si concede a un intenso e rinnovato confronto con la processione interiore delle insicurezza d’amore. D’altronde la Berlinale si conferma il festival che dà soddisfazione a quegli autori che fanno quasi sempre il mercato d’essai: tornano così a casa a mani immancabilmente piene e listini internazionali assicurati due film medamente d’essai e sostanzialmente innocui come Death in Sarajevo di Danis Tanović e Kollektivet – The Commune di Thomas Vinterberg. Entrambi autori che sono figli prodigio di un sistema produttivo internazionale che costruisce i film a tavolino ed entrambi film che, non a caso, escono dal festival con un Orso da mettere in locandina: il Gran Premio della Giuria per Tanović e il premio per la comunque brava Trine Dyrholm, protagonista della commedia familista e collettivista di Vinterberg. Per il resto – trascurando i trascurabili: Zero Days di Alex Gibney, A Dragon Arrives! di Mani Haghighi, The Patriarch di Lee Tamahori, Alone in Berlin di Vincent Perez, 24 Weeks di Anne Zhora Berrached) – resta la traccia del tunisino Hedi, opera prima di Mohammed Ben Attia, film di incertezze e fragilità che sta sospeso assieme al suo protagonista su un’identità tutta da costruire. Il premio per l’interpretazione di Majd Mastoura può apparire un po’ eccessivo,  serve tuttavia a segnalare uno dei film più intensi e trascurati della competizione.

Hedi
Hedi