Nello Spazio senza ritorno: High Life di Claire Denis

Il mondo ormai lontano, l’umanità galleggia nello spazio profondo, pura materia fisica in astrazione di socialità, reietti derelitti alla deriva, ma corpi ancora giovani, carne fresca che contiene spirito marcio, sfiancato dall’assenza di prospettive, dal vagare in perenne continuità, senza un possibile ritorno. Ecco, uno dei punti nodali su cui Claire Denis costruisce High Life è proprio questa mancanza della catarsi del ritorno, che rende inane e impossibile il nostos di questi antieroi astronautici, ergastolani dello spazio, prigionieri di un’astronave tetragona come un parallelepipedo, oggetto spaziale cubitale che contraddice forzatamente la sensualità fusiforme delle classiche astronavi che penetrano lo spazio. Non c’è ritorno per questi giovani eternauti, detenuti nella solitudine siderale che fa di loro dei cavalieri con la macchia e senza sogno né nostalgia. L’azzeramento del tempo è del resto una delle costanti del cinema di Claire Denis, la pulsione a svincolare le biografie dei suoi personaggi dalla sensazione di un tempo che ne definisca l’inizio e la fine. In questo senso High Life è quasi un teorema, tanto rende plastico (soprattutto nel finale) questo disincarnarsi della continuità del tempo dal destino del protagonista.

 

 

Ecco, il protagonista: il suo nome è Monte e il suo corpo è quello di Robert Pattinson, attore sempre più letteralmente straordinario, qui figura astratta nella sua aura introflessa, che Claire Denis incastona nel suo film come un monaco disilluso, che ha fatto voto di castità: non per desiderio di purezza, ma per repulsione della vita, per timore di consegnare un altro essere al tempo marcio dell’esistere. Monte è uno dei detenuti, anzi è il detenuto, quello su cui si puntano tutte le speranze della Dottoressa Dibs, il capo della missione e l’artefice del progetto cui i suoi giovani prigionieri partecipano. Lei è una sorta di sacerdotessa che celebra all’infinito il rito di una riproduzione quasi tumorale, perché immancabilmente destinata alla morte: non c’è ritorno né per lei né per i giovani detenuti, che sono stati lanciati nello spazio per scontare la loro pena eterna, servendo da cavie per la progettualità riproduttiva architettata da quella scienziata pazza. La Dottoressa Dibs ha la sensualità vischiosa di una Juliette Binoche dalla lunga chioma corvina: alle spalle una tragedia personale da Medea, questa donna celebra il rito di una riproduzione asessuata che persegue la perfezione. Impone la masturbazione ai maschi per raccogliere il loro sperma e inseminare in vitro le donne costrette all’astinenza sessuale… L’unico che non accetta di sottomettersi al suo progetto è Monte, che celebra una castità refrattaria alla vita e per questo è l’eroe senza macchia di quell’astronave di dannati senza sesso. Tutti gli altri trovano il piacere meccanico nella solitudine di un sexbox, una cabina del piacere solitario, le cui sessioni orgasmiche Claire Denis visualizza sulla Binoche quasi come fossero gli amplessi della Adjani in Possession di Zulawski.

 

 

In realtà il tempo di High Life è costruito dalla regista sull’incipit che ci mostra subito il destino del suo eroe, solitario nel ventre dell’astronave deserta e persa nello spazio, alle prese con il corpicino della piccola Willow, una neonata che accudisce e cura e nutre con paterna dedizione. La ragione di quella solitudine il film ce la mostra nel flashback nel quale Claire Denis materializza il dissidio fisico e temporale di cui il suo protagonista sarà espressione: tutto accadrà per lui e contro di lui, nonostante la sua inflessibile volontà di astenersi da qualsiasi scelta che comporti un futuro. Se questo è un film di fantascienza lo è solo nella misura in cui la palingenesi che propone è un atto di (ri)generazione celibe, non aspira a definire un futuro alternativo per la realtà umana, non si proietta in universi differenti. Semmai incide il tempo come una struttura afferente la natura umana, richiude in se stesso il tempo dell’uomo al di là di qualsiasi progettualità: divina o umana essa sia. La palingenesi che s’inventa Claire Denis per questo suo space drama ha davvero poco di astratto e speculativo, nega sapientemente l’inganno della visione/orgasmo cui sono destinati tutti i viaggiatori spaziali da Kubrick/Clarke in poi, per costruire piuttosto un dramma incarnato nel nucleo stesso della istintualità umana, la funzione genitale dell’essere, la pulsione della preservazione della specie…High Life è dunque un oggetto filmico che rifugge da qualsiasi scansione testuale: come sempre nel cinema della Denis, c’è più materia che pensiero, più fisicità che speculazione. La flagranza del rapporto di questa regista con la sostanza fisica delle sue storie, coi corpi dei suoi personaggi, con la pulsionalità delle loro emozioni, è preponderante rispetto a qualsiasi logica. È anche per questo che amiamo tanto il cinema di Claire Denis.