Perturbante in divisa: Gigi la legge di Alessandro Comodin

Tendenzialmente sospettoso, ma anche vagamente sospetto, Gigi è un agente di polizia locale, quelli che un tempo si chiamavano vigili urbani, espressione che del resto calza perfettamente all’eroe eponimo di Gigi la legge, il nuovo film di Alessandro Comodin (Premio Speciale della Giuria nel  Concorso di Locarno 75). Perché di sicuro è un personaggio vigile, attento ai movimenti e ai dettagli di quelle strade che perlustra ogni giorno. E poi perché, se una cosa lo caratterizza, sono proprio i modi sempre oltranzisticamente urbani con cui si relaziona agli altri… Potrebbe essere una commedia e, se non manca il (sor)riso, non manca nemmeno una traccia di mistero, che svapora dagli incroci delle periferie campagnole di un entroterra settentrionale altrimenti colto con piglio naturalista. Va detto, d’altronde, che questo è un film che ha qualcosa di celibe, non si coniuga con la realtà che pure descrive con gesto simbiotico, restandone separato, in qualche modo astratto. Effetto straniante, che è probabilmente la qualità più propria del cinema di Alessandro Comodin, che fa della distrazione, dello sfasamento e della capacità di far dialogare pensieri e gesti rimossi la sua dinamica più propria.

 

 

 

Già l’incipit dice in questo senso moltissimo: l’esterno notte su cui si apre, pone Gigi la legge in uno spazio liminare tra la realtà e l’astrazione, dimensione in cui il suo protagonista si muove poi per tutto il film. A dispetto della sua apparente struttura naturalistica tendente al naïf, Gigi la legge è infatti un lavoro che tutto sommato maneggia questioni dell’inconscio, cose che hanno a che fare vagamente con la rimozione, lo spostamento dell’oggetto, gli atti mancati… Tutto si pone, o meglio si oppone nell’ottica della relazione mancata, che del resto è perfettamente coerente con il percorso di Comodin, sin da L’estate di Giacomo: nel suo giardino, florido sino all’inverosimile, Gigi tiene prigioniero il suo spirito selvaggio, l’eccedenza del suo ego tendente al narcisismo, controllato nella gentilezza quotidiana delle relazioni placide che intrattiene. L’aggressività che si sedimenta nello scontro fantasmatico dell’incipit, si disperde nel flusso continuo di relazioni allusive su cui si costruisce l’ordito narrativo complessivo del film, tutto giocato sulla creazione a beneficio del protagonista di uno spazio intermedio tra ciò che fa e ciò che pensa, tra l’oggetto delle azioni e delle conversazioni coi colleghi e il loro significato recondito.

 

 

 

La stessa scintilla narrativa del film, ovvero il rinvenimento sui binari del corpo di una ragazza, che rivela un susseguirsi di suicidi nella zona, è posta come un accadimento a latere, che scorre nei pensieri del protagonista come un atto mancato, come l’incrinatura nella struttura della realtà in cui si insinua il sospetto nei confronti di un ragazzo che si aggira nella zona, pedinato da Gigi seguendo quasi un filo di pensiero inconscio. A fronte di questo ci sono i duetti coi colleghi di pattuglia, che irrompono inattesi nel controcampo dei reiterati cameracar che compongono la struttura del film, quasi a creare una fenditura nella continuity spaziotemporale dei percorsi mentali di Gigi. Il quale, peraltro, insiste nel discorrere via radio con la nuova collega della base, seguendo lo svaporamento sentimentale di un innamoramento tutto ideale che diviene l’ennesima linea narrativa offerta da Comodin al suo protagonista, volutamente vanificata nella sua struttura tutta astratta e mancata. Che sono qualità strutturali cercate dall’autore, ma rischiano anche di essere limiti oggettivi di un film che, a differenza dei suoi precedenti, trova con qualche difficoltà il punto di innesto tra la connotazione diversamente introspettiva dei personaggi e delle loro (re)azioni e l’orizzontalità flagrante degli spazi reali e naturali in cui si muovono. Il perturbante rappresentato dal giardino, descritto con orgoglio quasi fallico da Gigi nelle dimensioni e nella possanza, è uno spazio simbolico che si proietta senza ombra sulla solarità realistica della scena che il protagonista attraversa: non crea un dialogo, si oppone come pura dimensione alternativa di un personaggio che coltiva un mistero inespresso, il sogno di una cosa che è desiderio, paura, possessione. Il gioco con la flagranza del protagonista, Pier Luigi Mecchia, è vago, inespresso, quasi inconscio. Ed è la forza di un film forse non del tutto risolto, ma decisamente coerente con le premesse.