Trento Film Festival 71 – Bitterbrush di Emelie Mahdavian e l’elogio della vita da cowgirl

Hollyn (Patterson) e Colie (Moline) fanno salire i loro cavalli su un trailer, sistemano i cani sul retro e si mettono in viaggio per raggiungere un luogo remoto dell’Idaho in cui per quattro mesi si occuperanno di pascolare e accudire il bestiame in spazi aperti. Il loro è un lavoro duro, solitario, itinerante, in cui non sembrano avere contatti con il resto del mondo. Due cowgirls che usano il lazo con grande abilità, immobilizzano vitelli per curarli, domano puledri che non vogliono saperne di portare la sella (bellissima e piena di suspense la scena in cui Hollyn si avvicina dapprima con una pesante coperta, poi con la sella, al recalcitrante animale ricorrendo a tutti i mezzi per raggiungere l’obiettivo). L’unica altra presenza umana che si vede nell’intenso documentario di Emelie Mahdavian – presentato in concorso alla 71 edizione del Trento Film Festival, dopo il passaggio al ShorTS International Film Festival -, è Elijah, sorta di deus ex machina che compare di tanto in tanto. La regista si concentra volutamente sulle due giovani donne ed è particolarmente abile nel cogliere le dinamiche tra loro e con il paesaggio che le circonda, elemento imprescindibile che entrambe hanno scelto volontariamente di vivere, osservandole nella vita di tutti i giorni, inquadrandole in campo lungo o lunghissimo nella natura incontaminata, lavorando sul non detto, soffermandosi sugli sguardi, i sorrisi, gli atteggiamenti che fanno emergere due temperamenti diversi: più riflessiva ed emotiva Colie, più burrascosa e burlona Hollyn che di se stessa dice: «Sono nata pronta: addirittura prematura!».

 

 

Allo stesso modo Mahdavian non ricostruisce il loro passato in maniera pedissequa, ma lascia che siano i loro racconti davanti al fuoco, mentre lavano i piatti o mentre cavalcano ad aprire squarci. Veniamo così a sapere che le due si conoscono da cinque anni, ci sono stati momenti difficili (Colie racconta del funerale della madre, morta per aneurisma), e la scelta di vita nomade, lontana dal mondo civilizzato – non a caso un cellulare, con lo schermo incrinato, compare solo nella scena finale quando Colie chiama Hollyn – è consapevole e corrisponde alle loro aspettative, da portare avanti, consapevoli che sarà «più dura», anche davanti a cambiamenti importanti. Mahdavian, al suo secondo documentario dopo After the Curtain (2016) sulla passione di quattro donne tagiche per la danza in un Paese musulmano, dimostra un’attenzione particolare ai ritratti femminili realizzando un documentario che è a tutti gli effetti un western (notevole il lavoro di Derek Howard e Alejandro Mejia sulla fotografia) che parla dell’oggi da molti punti di vista: lavoro, amicizia, scelte di vita e soprattutto libertà.