La famiglia interrotta di Una madre di Stefano Chiantini

Che nel cinema italiano ci sia desiderio di raccontare la realtà ce lo racconta il cinema stesso. Un gran numero, se non quasi tutti i film in questi ultimi mesi, abbandonando ogni elaborazione narrativa, incastri, film di genere (se si esclude Il corpo) puntano sul reale come pozzo senza fondo di storie che disegnano, da sud a nord della Penisola, un unico tratto di difficile rapporto con la quotidianità per le classi meno abbienti e in oggettiva difficoltà economica. Questo cinema, che al di là della specificità individuale, si ritiene che qualcosa, nella sua coralità, voglia pur dire oltre che raccontare. Anche Una madre dell’abruzzese Stefano Chiantini non si discosta da questa linea di pensiero e ci racconta la storia di Deva (Aurora Giovinazzo) che vive insieme a sua madre (Micaela Ramazzotti) in una roulotte alla periferia di una città. Deva si arrangia con lavoretti occasionali, cerca incessantemente lavoro anche perché la madre alcolizzata è legata ad un uomo senza scrupoli senza morale e non dà alcun aiuto alle già scarse economie familiari. Un giorno incontra Carla (Angela Finocchiaro), proprietaria di una pescheria, che accudisce un bambino ancora quasi in fasce. È il figlio di sua figlia tossicodipendente. Sarà questo bambino a cambiare la vita di Deva, che, scopriamo, è stata costretta ad un aborto. Maternità, adozioni, famiglie arcobaleno popolano ormai da tempo i nostri schermi in un susseguirsi di scenari che, tutti credibili, ridisegnano un Paese che sembra essere distante da quello immaginato, ma che il cinema si incarica di raccontare al di là di ogni tabù e di ogni restrizione normativa. In questo si intravede un’urgenza che travalica anche il valore più o meno alto di ogni film.

 

 

Anche Una madre appartiene di diritto a questo cinema e nella sovrapposizione delle madri da Deva, madre mancata e nuova madre, da sua madre, madre interrotta, a Carla, madre putativa del piccolo e di Deva, a sua figlia altra madre mancata, il film sembra giocare in una specie di percorso dove gli specchi di un reale davvero molto vicino a ciascuno di noi riflettono altre immagini rispetto al visibile. È in fondo il lavoro che deve fare il cinema, quello di raccontare il lato oscuro di ciò che pensiamo di conoscere, rendere visibile l’invisibile. Chiantini riesce a dare forma e peso al suo racconto, intensità emotiva ai suoi personaggi, una città anonima (Roma?), che nel suo aspetto ignoto smette di diventare un luogo per assumere la fisionomia di ogni luogo possibile. Una menzione speciale alla giovane attrice protagonista che sa conferire alla sua Deva la giusta scorbuticheria al suo personaggio così disilluso e rabbioso, capace di ritrovare la dimensione materna in una pregevole e misurata crescita e mutazione del personaggio. Tirando le somme, si tratta di un altro racconto che al cinema indaga la inesplicabile e originaria relazione materna che sembra essere diventata una specie di nuovo territorio di esplorazione. Da qui un altro film tutto al femminile che con molta discrezione e rispetto delle diversità, sonda la psicologia di genere. Una madre si aggiunge alla lista e con le sfaccettature della sua scrittura colma un altro vuoto, con la sensibilità a volte ruvida di un personaggio come Deva che fa fatica ad uscire dal ricordo.