L’Habeas Corpus di Laurie Anderson e la dissociazione fra il vedere e l’essere

laurie-anderson-75Incontrata durante il suo passaggio a Toronto, Laurie Anderson mi aveva annunciato: “Sto facendo un lavoro insieme a un prigioniero di Guantanamo, il più giovane detenuto in quel centro. Si tratta di un’installazione, dove proietteremo la sua immagine su una grossa statua, e di una performance.” Subito dopo si era raccomandata: “E’ bene vedere prima l’installazione e dopo la performance.” In effetti, sebbene entrambe avvengano nello stesso spazio – il maestoso salone del Park Avenue Armory di New York – e si avvalgano delle stesse strutture, il sentimento che provocano è molto diverso. Nella prima la grossa statua su cui è adagiata l’immagine, diffusa in streaming, del prigioniero è come un monolite che vibra in un spazio vuoto. Nella seconda, la presenza di un pubblico numeroso, elimina l’idea della prigione, riduce il dramma che soggiace al progetto e lo sostituisce con l’idea di una comunità. Essendo difficile riunire tutto in un discorso unico, mi affido ad alcune notazioni.

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L’uomo 

Iniziamo dal co-autore del progetto e principale protagonista. Mohammed el Gharani èstato il detenuto più giovane recluso a Guantanamo. Aveva solo 14 anni quando venne arrestato insieme ad altri durante una sessione di preghiera in una moschea in Pakistan. Accusato di essere stato un operativo di Al Qaida a Londra – quando avrebbe avuto solo 11 e non era mai uscito dall’Arabia Saudita – Al Gharani è stato rilasciato sotto l’amministrazione Bush, dopo 7 anni di reclusione e maltrattamenti, per mancanza di prove. Trasferito dopo il giudizio in un altro centro, il giovane ha avuto modo di comunicare la sua prigionia e trattamento a Al Jazeera, facendo rilevare come, malgrado i vari comunicati di Obama, la situazione a Guantanamo non sia cambiata. Espulso dal paese, El Gharani parla ora da un non precisato luogo in Africa, dove si trova senza una vera cittadinanza e uno status.

 

La proiezione

Non potendo ri-entrare negli US, El Gharani è presente a New York in forma di proiezione tridimensionale. La sua immagine silenziosa è stata teletrasmessa e proiettata su una statua gigante che ricorda per forma e posizione quella di Lincoln (al Memorial di Washington) dal 1 al 4 ottobre per 7 ore al giorno. Come il presidente degli US, El Gharani è seduto. La sua postura (null)è ferma e spesso seria, ma non è immobile o imperiosa. Non di rado si apre a sorrisi che rivelano un animo non intaccato dalla lunga prigionia. Ogni mezz’ora l’immagine evapora, lasciandolo libero di fare stretching, pregare o mangiare. Allora per un attimo la statua riluce in tutto il suo biancore; poi l’immagine del prigioniero riappare in racconti registrati che fanno riferimento alla sua esperienza a Guantanamo. El Gharani parla allora in un inglese che ha appreso quando era detenuto, parla soprattutto in nome dei “fratelli” che ancora sono reclusi e in attesa di giudizio.

 

Habeas corpus

Sono proprio i brevi istanti in cui la proiezione s’interrompe a essere quelli maggiormente drammatici. Quando il corpo scompare e resta lo scranno vuoto, il senso del progetto tocca il suo apice. Perché sebbene il substrato politico sia evidente, il cuore dell’operazione risiede nel mettere in evidenza un concetto di tipo giuridico. L’habeas corpus si rifà infatti al diritto anglosassone che nel XIII secolo aveva introdotto questa nozione come fondamento di garanzia nei confronti del detenuto. Il diritto del prigioniero a essere mostrato, affinché tutti possano prendere visione delle sue condizioni, sembra invece superato, nel nome di una presunta sicurezza offerta a tutti i cittadini, dalla società XXI secolo.

 

L’immagine

C’è poi un altro dato che l’installazione mette in rilievo. Ed è quello relativo al valore dell’immagine e al rapporto che ha con il suo referente. La nozione di “habeas corpus”si basa sulla simmetria tra il vedere e l’esistere; detto altrimenti prevede che un corpo mostrato equivalga a un corpo reale. Oggi, però, il passaggio al numerico ha rotto questa cesura: tanto che è possibile vedere cose che non esistono, cose che vengono create o ritoccate ad hoc. L’installazione di Laurie Anderson ha dunque il pregio di rimettere al centro della discussione questa semplice domanda: il vedere e l’essere sono disgiunti? Crediamo ancora in ciò che vediamo?

 

(null) (2)Lo spazio

L’installazione inserisce queste domande in un contesto singolare. Scegliendo di non arredare affatto il grande salone dell’Armory, se non per una palla stroboscopica appesa al suo centro, che rifrange fasci di luce in tanti puntini che decorano la stanza altrimenti buia e per la grande statua posta in fondo, Laurie Anderson ha creato uno spazio dai molteplici significati: di volta in volta cosmo dove proiettare la propria solitudine (punteggiato da stelline in movimento apparente), spazio di reclusione (dove la luce è negata), discoteca (luogo di condivisione per una comunità che si crea il tempo di una canzone), luogo del disorientamento (esaltato dagli effetti stroboscopici, delle luci che danno l’idea che tutto si muova). Questa vacuità fa forse ancora più effetto, perché è situata nel cuore di Manhattan, dove lo spazio è così prezioso da essere occupato in tutte le direzioni, e sviluppato soprattutto in altezza.

 

Il suono

Sono stato alla performance insieme alla regista greca Athina Tsangari, che mi ha subito fatto rilevare come nelle performance di Laurie Anderson ci sia sempre il sentimento di vivere qualcosa di rituale, se non di sacro. Riferimento giusto anche se curioso, se riferito a un lavoro che di lì a poco ci proietterà in uno spazio altro, quasi ludico (ma in fondo le cattedrali di fine XX secolo sono state proprio le grandi discoteche). Nonostante bisbigli di ragazze che pensano di essere a un avvenimento mondano, il sentimento sopravvive. Soprattutto grazie al lavoro sul suono. Il soundscape è assicurato dalle chitarre di Lou Reed che sono collegate da una sorta di drone, usato dal musicista per Metal Machine Music e che il suo tecnico di fiducia, Stewart Hurwood, modula in modo straordinario. A questo fondo si aggiungono le ormai consuete sospensioni sulle sillabe proprie dello stile di Laurie qui precedute e messe a dialogare con i vocalizzi e i loop ritmici di Merril Garbus (meglio nota come tUnE yArDs). Laurie Anderson – dopo essersi affidata alle parole di Ginsberg di cui recita la sua poesia Song – suona e canta un solo pezzo, il famoso O Superman, che qui assume connotati ancora diversi. Poi dopo aver scosso il pubblico, come è sua consulaurie-anderson-114etudine, fa un passo indietro lasciando la scena al cantante siriano, Omar Souleymane che con il suo look unico e la sua musica accattivante trasforma il grande spazio in una sala da ballo. E allora, anche i giovani della New York bene, venuti lì per assistere a un evento di tendenza, per dire I was there, si trovano per la prima volta un po’ spiazzati.

 

 

 

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