Su RaiPlay Francofonia e il perduto senso sacrale dell’arte

Per accompagnarvi nella visione di Francofonia, riproponiamo qui ciò che scrisse per Duels Carlo Chatrian, all’epoca direttore del Festival di Locarno e attualmente alla guida della Berlinale.

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francofonia-shooting-8 Ho incontrato Aleksandr Sokurov un pomeriggio d’inverno, a San Pietroburgo. Era solo in una stanza grande, spoglia a eccezione di tre manichini, di una piccola scrivania ai cui piedi giaceva una stufetta elettrica. Sulla scrivania, una lampada, una serie di fogli e qualche penna. Ai muri, non un’icona, non un’immagine, non un quadro, come se tutto fosse un arredo superfluo. A me che cercavo di parlargli di cinema, ha risposto gentile ma deciso: “Il cinema è un’arte minore”. Il pensiero successivo è subito andato al suo luogo d’adozione. “Come? Non sei stato all’Hermitage?” Per Sokurov i musei sono le grandi case della cultura, dei luoghi da frequentare e, se possibile, da abitare. L’Hermitage, poi, è una sorta di interlocutore privilegiato. Come un amico che si ha bisogno di visitare con regolarità. Quando ne parla, i suoi occhi brillano di una luce particolare e il suo sorriso si fa ancora più largo. E’ in occasione di quella visita invernale che Sokurov mi aveva accennato al suo progetto sul Louvre. “Un film difficile”,aveva detto, senza aggiungere il perché. A distanza di tre anni, capisco le ragioni della sua affermazione. Francofonia è un film difficile da fare e da accogliere. E’, come Faust, un film che scombussola e provoca. Un film in cui il regista prende di petto una cultura altra per produrre una riflessione assolutamente personale, come è lecito attendersi da un artista. All’origine, sta la scelta di trattare le sorti di un museo in uno stato occupato. Al cuore di una Parigi invasa dai tedeschi, la roccaforte dell’arte deve la sua difesa solo alla buona volontà dei suoi occupanti. Il Louvre, che oggi fa bella mostra della sua grandeur, è nella traduzione di Sokurov una nave in balìa della tempesta. Ben oltre la metafora, il film colpisce per la dimensione dei personaggi: tutti appaiono piccoli, troppo piccoli, in rapporto agli spazi che occupano. Piccoli sono il direttore del museo, Jaujard, e il conte Metternich, ma ancora più piccole sono le figure di Napoleone e di Marianne – ridotte a buffe caricature. E’ proprio la loro danza tra le sale del museo a raccontare del perduto senso sacrale dell’arte. Da casa, corte, reggia, spazio d’incontro il Louvre sta diventando quel luogo dove si celebra uno spettacolo di nature morte, che è la diretta conseguenza della grande distanza che in ogni museo separa opera e spettatore. In questo senso non sono d’accordo con chi ha letto il film come una fantasticheria. Sokurov non è tipo da vagheggiamenti; qui come altrove propone una visione lucidissima. Francofonia è da intendersi come un oratorio funebre e al contempo come l’ultimo possibile omaggio all’arte. Molto più della sua ironia graffiante a me colpisce la profonda nota malinconica che vibra nella voce del regista. E non è solo per ricordare le diverse sorti toccate al Louvre e al suo Hermitage, nella sequenza più struggente di tutto il film. Il suo lamento è rivolto all’arte all’epoca di skype.

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La vera sfida di Sokurov si gioca su un altro terreno, quello del ruolo e del linguaggio che il cinema adotta per ottemperare il suo compito. Pochi registi come lui sono consapevoli di questa dimensione. Pochi registi come lui modulano la propria voce, restando fedeli a loro stessi, per rispondere agli interrogativi che soggetto e dimensione storica in cui ci si trova comportano. Iniziamo subito col dire che il cinema sancisce la separazione tra scena e platea. Come in un museo moderno, provvisto di tutte le più rigorose misure di sicurezza, i due non si toccano più: da una parte c’è uno spettacolo e dall’altra un pubblico. Prendendo le mosse da questa situazione, che è quella della modernità, il cinema è quell’arte minore che però ha il pregio della duttilità. Il cinema coltiva l’illusione che un’unità sia ancora possibile, proietta uno sguardo dentro una scena: questo il principio su cui si fonda l’Arca russa. Il cinema permette di giocare con le epoche, richiamando la superficie luminosa di età lontane; consente collegamenti tra situazioni diverse fino a rendere possibili ardite sovrapposizioni. Il cinema è evocazione. Dopo esser stato piano sequenza (Arca Russa), scena vista dall’interno grazie a un movimento inesausto dei personaggi e della macchina da presa (Faust), il cinema torna a essere montaggio. Mai come qui Sokurov si avvicina alla riflessione di Chris Marker Francofonia celebra il cinema come arte della contaminazione. Come per altri acuti lettori del presente – penso a Chantal Akerman, che curiosamente usa skype per dare forma al suo racconto – Sokurov guarda al passato per ipotizzare il futuro come quella disciplina che si affranca dallo spazio. O, forse, che gioca sulla compresenza di spazi diversi, sull’essere, come fa intendere oggi il mondo delle immagini, ubiquo. Anche nelle sue scene più semplici, quelle dedicate allo sguardo diretto sulle opere esposte nel grande museo, Francofonia appare come la messa a confronto di cose lontane, incommensurabili. Come un’opera d’arte e un pupazzo, come il manufatto di una cultura vecchia di oltre 3000 anni e uno sguardo sfrontato, come è quello dei giovani.