Ricordando Ezio Alberione: l’eterno ritorno di E.T. L’extraterrestre

 

 

Per celebrare il quarantesimo anniversario del capolavoro di Steven Spielberg, uscito nelle sale americane il 24 novembre 1982, Universal Pictures Home Entertainment ha fatto uscire due edizioni da collezione, disponibili per un periodo limitato:

  • E.T. L’EXTRATERRESTRE – 40° ANNIVERSARIO – EDIZIONE SPECIALE STEELBOOK (4K UHD + Blu-ray™) che include 4 cartoline, un segnalibro, il poster, Pass – dietro le quinte, un libretto fotografico e un estratto della eceneggiatura, oltre al film e ai contenuti speciali inediti.
  • E.T. L’EXTRATERRESTRE – 40° ANNIVERSARIO – STEELBOOK (4K UHD + Blu-ray™) che include il film all’interno di uno steelbook con una creatività inedita e nuovi contenuti speciali mai visti prima.

A noi piace ricordare i primi 40 anni di E.T. ripubblicando il saggio “E.T: un’idea di cinema” che Ezio Alberione scrisse nel 2002, contenuto nel libro da lui curato Incubi e meraviglie. Il cinema di Steven Spielberg (Edizioni Unicopli). Un modo per tenere sempre nei nostri cuori E.T. e Ezio.

 

Erano gli anni nei quali il cinema era il centro del nostro mondo. E.T. la palestra ideale per furiose/giocose battaglie contro il freddo del cuore, il buio dell’universo, la crudeltà delle speranze disattese. Ezio teneva le fila di notte insonni spese fuori dal cinema per far quadrare il nostro amore per quello schermo. Vita e ricordi che non si sono consumati grazie a film che ancora oggi ci tengono lontano dall’oblio di quelle giornate. E.T. era trionfalmente passato fuori concorso al Festival di Cannes, da noi sarebbe arrivato a dicembre 1982 per trasformarsi con il passare degli anni nell’occasione di una grande gioia e di una grande malinconia. Malinconia della voce di Ezio, delle sue parole, che ci tengono caldo e rappresentano ancora oggi la speranza. “Non abbiamo bisogno di parole per sopravvivere, ne abbiamo bisogno per vivere” ci ha rivelato Jón Kalman Stefánsson e così possiamo perderci nel cuore e nel pensiero del nostro amico finché i ricordi non ci aggrediscono, dolcemente. (Massimo Rota)

 

 

Forse è nato come “film per bambini”, ma ben presto è stato chiaro che era diventato il “film per tutti” (per quindici anni è risultato il maggior campione d’incassi del cinema mondiale). La più celebre favola mai creata da Hollywood è nata come un “piccolo” film (il budget non stratosferico era di circa 11 milioni di dollari) con tratti fortemente autobiografici (in esso il regista ammette di aver fatto confluire il ricordo dei divorzio dei suoi genitori, il senso di isolamento sperimentato ma anche elementi dell’orrore quotidiano scolastico come la dissezione delle rane). Nell’incontro, nella relazione e nella protezione reciproca tra il bambino e l’alieno, Spielberg non ha messo in scena, come potrebbe sembrare, una visione consolatoria e rassicurante del mondo e dell’infanzia, ma ha costruito un romanzo di formazione e ha raccontato un’educazione sentimentale (racchiusa tra due battute del fratello Michael: il rimprovero «quando imparerai a capire i sentimenti degli altri?» e il riconoscimento che Elliott «non sente i pensieri ma i sentimenti di E.T.»). È un percorso emozionante e coinvolgente, ma anche molto duro e sofferto visto che il film parte dall’avvertimento di una doppia solitudine e si conclude con una separazione (e non c’è dubbio che il ricordo di E.T. farà di quelli i “migliori anni” della vita di Elliott). Inoltre nella rappresentazione di un mondo adulto che si dimostra, agli occhi dei bambini, predatorio, insensibile e a tratti violento (con la parziale eccezione della madre e di uno scienziato) il film risulta essere uno dei più grandi saggi sulla distrazione dei grandi rispetto ai piccoli o addirittura sulla irriducibile diversità/conflittualità dei due mondi.

 

 

E.T. ed Elliot raffigurano l’incontro (“et” vale anche come congiunzione) di due alterità, di due figure marginalizzate, oppositori prima ancora che vittime del mondo adulto. È tutto chiaro fin dalle sequenze iniziali. E.T. è abbandonato nel bosco (come succederà poi anche al David di A.I.). È braccato, ricercato, inseguito da alcuni scienziati adulti che lo vogliono studiare, analizzare, vivisezionare (e quando riusciranno nel loro intento lo faranno morire). Anche il bambino Elliot (il cui nome inizia e finisce proprio come quello dell’alieno) viene presentato come isolato, perché il fratello più grande e i suoi amici preadolescenti lo escludono dal gioco (a ciò si aggiunga che il papà ha abbandonato la famiglia). Fin dalle prime sequenze Spielberg segnala l’omologia delle due creature la cui amicizia nasce dalla disponibilità all’accoglienza che può offrire solo chi ha avvertito su di sé il peso della solitudine. Elliot, nuovo Pollicino, traccia un sentiero di caramelle per aiutare E.T. a entrare in casa e poi lo aiuta nella costruzione dell’apparecchio che lancia il suo SOS: «E.T., phone… home…». Telefono, casa. Questa è la richiesta di E.T.: ritrovare una comunicazione e una comunità, la doppia relazione dello scambio e della genealogia, i due grandi lutti della contemporaneità. Spielberg non fa dei suoi due protagonisti delle vittime patetiche, ma degli eroi anomali, caratterizzati non dalla potenza fisica o dalla sagacia intellettuale ma da un surplus di affettività, fantasia e creatività. Da questo punto di vista finiscono per rivelare tratti prodigiosi e potenzialità insospettate: un elemento che è persino facile da riconoscere in un alieno che pare modellato sulla figura cristica (discende sulla Terra, possiede poteri speciali, è portatore di pace e amore, ha una ristretta schiera di “apostoli”, muore intorno all’ora nona, risorge e ritorna in cielo), ma che in realtà è condiviso da entrambi nella capacità di creare un contatto tra entità totalmente differenti (un formidabile esempio di interculturalità), e soprattutto nella potenzialità di far rifiorire la vita (E.T. fa rinascere i fiori, Elliott fa lo stesso con E.T. grazie a una dichiarazione d’amore che lo allinea alla tradizione dei Principi azzurri di Biancaneve e della Bella Addormentata o, ancora, alla dichiarazione di Bella alla Bestia). Il loro è l’eroismo del cuore, la loro è la forza dei sentimenti. Lo stesso principio ispira il cinema “sentimentale” di Spielberg (un cinema di affetti prima che di effetti), tanto che sembra quasi una dichiarazione di poetica il momento della partenza di E.T. quando la porta circolare dell’astronave si chiude come un diaframma fotografico sul cuore dell’alieno.

 

 

Altre scene sembrano possedere una forte valenza metadiscorsiva. Per esempio il montaggio alternato tra E.T ubriaco che guarda la televisione a casa ed Elliott a scuola. Nell’empatia dei due personaggi è descritto il potere modellizzante del cinema tant’è che il bambino a scuola replica il bacio di John Wayne visto da E.T. in Tv. Questa scena, oltre che essere una tappa importante nell’educazione sentimentale di Elliott, andrebbe anche letta in parallelo con i primi approcci tra il bambino e l’alieno ispirati da un codice mimetico (E.T. ripete i gesti di Elliott e poi imparerà a ripetere le parole viste in Tv, quasi ripetendo il passaggio del cinema dal muto al sonoro): E.T., in prima battuta, imita e riproduce ciò che vede, ma in seconda istanza, ispira e modella i comportamenti di chi è in sintonia con lui. La pregnanza di questa sequenza non è ancora esaurita visto che la citazione del film con John Wayne non è affatto peregrina: Un uomo tranquillo di John Ford racconta la storia di un difficile ritorno a casa, argomento che è perlomeno accostabile alla trama di E.T. Attraverso questa scelta sembra quasi che Spielberg dichiari la sua intenzione di rinarrare una storia già conosciuta (ma in fondo non è sempre così? non si raccontano sempre storie di assedi, desideri, ossessioni come nell’Iliade o peripezie per ritrovare qualcosa di perduto o anche solo la strada di casa come nell’Odissea?). Un altro passaggio significativo è quello della costruzione del comunicatore: ancora una volta è all’opera un modello ispiratore (il fumetto di Buck Rogers) ma viene anche esplicitato un metodo di lavoro che consiste nell’accostamento di materiali eterogenei e nella rifunzionalizzazione di elementi preesistenti in funzione di un preciso progetto comunicativo.

 

 

Si comprende allora perché anche questo film – come tutto il cinema di Spielberg – sia nutrito di rimandi, prestiti e citazioni alla favola. Basterebbe l’incipit nel bosco a ricollegare il film a una fittissima tradizione favolistica se non ci fosse un vero e proprio marchio autoriale nell’esplicito richiamo a Peter Pan (il brano letto dalla mamma è quello del salvataggio di Campanellino nei confronti di Peter e si conclude con l’affermazione della necessità di credere nelle favole, ma è già prefigurazione del passaggio attraverso la morte e promessa di resurrezione). Non mancano neppure i richiami alla cultura popolare (la Festa di Halloween come zona intermedia tra il mondo dei vivi e quello dei morti) e alle tradizioni religiose (il già richiamato aspetto messianico, il motivo iconografico del Sacro Cuore di Gesù). Soprattutto sono ampi i debiti con il cinema preesistente (con elementi come il volo delle biciclette che richiamano Miracolo a Milano o Pomi d’ottone e manici di scopa), in particolare con quello di animazione. A proposito del trattamento riservato agli adulti Spielberg ammette: «Mi sembrava importante che gli adulti non entrassero a far parte pesantemente della scena, che non avessero identità se non quando fosse essenziale per la trama. Ricordavo i cartoons della Warner e della MGM, di Chuck Jones, di Friz Freleng, Tex Avery, di tutti i grandi disegnatori degli anni Quaranta. Spesso sceglievano piccoli personaggi – soprattutto cani e gatti – ed escludevano gli adulti: dei quali magari, si scorgevano in primo piano soltanto le mani, le scarpe, le gambe… » (citato in Valerio Caprara, Steven Spielberg, Gremese 1997, p. 54). Gli adulti non sono assenti nel film, ma appartengono per forma, dimensioni, prospettive, a un’altra dimensione: sono incapaci di capire e di vedere con il cuore («loro non possono vederlo»), sono caratterizzati da un approccio tecnico-chirurgico che disseziona e distrugge. Solo alla mamma che ha conservato un rapporto privilegiato con l’infanzia sarà concesso, non senza difficoltà, di arrivare a vedere e a comprendere. E lo stesso avverrà all’uomo con le chiavi che dapprima è minaccioso come gli altri, ma che poi diventa il tramite della ricostituzione del rapporto tra il bambino e l’alieno e sembra destinato a prendere il posto del padre assente. È una figura-chiave (nei titoli di coda è indicato proprio come Mister Keys) del cinema di Spielberg perché è la proiezione dello stesso regista e il modello di ogni spettatore (anche adulto purché non abbia dimenticato di essere stato bambino) che abbia uno sguardo carico di stupore e di attenzione, ossia una capacità di attesa e una disponibilità all’incontro.

 

 

Altri aspetti confermano la natura “cinematografica” di E.T. a partire dal suo legame con l’oscurità (arriva e riparte nel buio della notte, si rivela a Elliott in un tempo che è quello del sonno e del sogno). E.T. è un’idea di cinema che, oltre agli aspetti già messi in luce, coniuga una matrice ludica – palle, bambole pupazzi “giocano” un ruolo significativo nel film – e una imprescindibile coscienza economica – la prima “lezione” che Elliott impartisce a E.T. è un concentrato di macroeconomia che spiega l’assetto capitalistico di una società imperniata su consumo, concorrenza, sopraffazione, reddito, risparmio, mobilità visto che si parla di cibo, di pesci grandi che mangiano pesci piccoli, di “uomini piccoli” che fanno la guerra, di salvadanai, di automobili (non è neppure da escludere che il salvadanaio a forma di nocciolina alluda al legame tra economia e politica, dal momento che questo frutto era stato il gadget simbolico del presidente Carter). Più di ogni altra cosa è cinematografica la promessa «I’ll be right here». A ogni proiezione, a ogni riedizione, a ogni aggiornamento, E.T. e il bambino mantengono la promessa del loro eterno ritorno (e noi torniamo bambini con loro).