È l’american psycho per eccellenza, tant’è che Bret Easton Ellis fa della sua biografia la lettura privilegiata di Patrick Bateman: Ted Bundy rappresenta il mostro perfetto della società americana, talmente archetipale che non stupisce sia stato tutto sommato così poco centrato dal cinema come dramatis persona in sé. A parte una miniserie tv americana degli anni 80 (in Italia trasmessa da Canale 5 col titolo Il mostro), la filmografia di Ted Bundy si accende solo a inizio millennio, a una dozzina d’anni di distanza dalla sua esecuzione, avvenuta nel gennaio del 1989, con alcuni titoli decisamente trascurabili, a parte forse quel Ted Bundy: Fascino criminale (titolo originale molto più incisivo: Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile…) in cui Joe Berlinger si affida a Zac Efron per trovare nell’ambiguità della sua maschera da bravo e bel ragazzo americano l’inquieta e inquietante figura del serial killer. Eppure le gesta efferate di Ted Bundy, la sua ossessione per le giovani donne, spesso studentesse, esplosa endemicamente nella provincia americana a metà degli anni ’70, deve aver influenzato non poco il coevo imporsi al cinema di quel genere slasher che il Maestro John Carpenter avrebbe così incisivamente riassunto nel 1978, descrivendo al produttore la trama del suo Halloween: “Babysitters to be killed by the boogeyman”… Il fatto è che Bundy tutto era fuorché un boogeyman nascosto sotto il letto dell’infanzia americana. Più che altro si trattava della maschera chiara e nitida di una affascinante normalità che nascondeva il volto malato di una società violenta.
Una figura terribilmente comune, che è stata capace di innervare per almeno una quindicina d’anni la provincia americana con decine di efferati omicidi compiuti sui corpi di giovani donne. Sarà per questo, per l’estensione nel tempo delle sue gesta e per la terribile complessità della persona reale, che Ted Bundy ha funzionato decisamente meglio con la narrazione seriale, attivando quel documentario d’inchiesta americano che ha focalizzato l’ambigua personalità di questo american boy da incubo. L’anno scorso Netflix lanciava Conversazioni con un killer: il caso Bundy, miniserie in 4 puntate firmata dallo stesso Joe Berlinger di Fascino criminale (strana figura di regista in bilico tra documentario, finzione, cinema e televisione, autore tra l’altro del fortemente sottovalutato Il libro segreto delle streghe: Blair Witch 2). Quest’anno, invece, Amazon Prime ha da poco lanciato un’altra miniserie, Ted Bundy: Falling for a Killer, 5 puntate realizzate dalla canedese Trish Wood. Se Berlinger puntava a dare voce al serial killer lavorando anche sulle registrazioni audio di interviste da lui rilasciate nel braccio della morte, prima della sua esecuzione, Trish Wood cerca una sorta di controcampo, lavorando sul versante delle donne, dando voce a quelle vittime che avevano subito la sua violenza omicida e, prima ancora, il suo fascino da bravo ragazzo.
La linea narrativa portante di Ted Bundy: Falling for a Killer è infatti offerta dal confronto di Trish Wood con Elizabeth Kendall, la donna con la quale Bundy ha avuto una lunga relazione mentre, a sua insaputa, metteva in atto la storia criminale. Senza trascurare di ricostruire i terribili omicidi compiuti dal serial killer, utilizzando materiali di repertorio e interviste a investigatori, amici e parenti delle vittime, Trish Wood traccia infatti un affresco dell’America degli anni ’70, focalizzando l’imporsi del movimento di affrancamento sociale femminile, il sorgere di un’immagine della donna non più sottomessa all’uomo, obbediente e remissiva persino dinnanzi alla violenza e allo stupro. Un’immagine di riscatto contro la quale si erge quasi inconsciamente il mostruoso operato di Ted Bundy, che agisce indisturbato per anni, mentre persino Elizabeth Kendall e sua figlia Molly lo adoravano per quella persona amabile che era ai loro occhi. E mentre la polizia e gli investigatori brancolavano nel buio, ignorando anche i tentativi di allertarli fatti dalla stessa Kendall quando, mettendo insieme identikit, sospetti, dati e date si era infine convinta che il mostro fosse il suo Ted. Quello che emerge dalle cinque puntate della serie (231 minuti in totale) è il ritratto alquanto agghiacciante di un killer trasparente, che non ha bisogno dell’ombra per agire, ma anzi trova nella su maschera di normalità la formula per interagire con quella società di cui è allo stesso tempo parte organica e tumorale. La lucidità con cui Elizabeth Kendall e forse ancor più sua figlia Molly (all’epoca dei fatti una ragazzina) ricostruiscono la normalità degli anni di convivenza con lui e il velo affettivo che copriva l’orrore abnorme delle sue azioni, sono il punto focale che consente alla serie di far letteralmente esplodere la semplice ricostruzione degli omicidi di Bundy nell’analisi di uno scollamento sociale che infieriva proprio sulla cellula primaria delle relazioni affettive reali. A sottolineare maggiormente questo aspetto è anche la figura del fratello di Ted Bundy, Rich, presenza acutamente drammatica della serie, perché segnata da un disadattamento sociale che sembra quasi la ricaduta sana della follia di Ted sulla sua vita. Trish Wood lavora con attenzione su questo e su tutti gli altri elementi raccolti (fondamentale l’apparato iconografico, l’enorme quantità di foto scattate da Elizabeth Kendall nel corso della loro relazione: viaggi, compleanni, momenti di vita quotidiana), spingendo la struttura del documentario d’inchiesta true crime in una dimensione soggettiva e personale. Invertendo significativamente la prospettiva della serie I Didn’t Do It con cui si era fatta notare nel 2011, in cui entrava nelle carceri americane per lavorare sugli innocenti condannati ingiustamente.