Nell’estate del 1939, dopo essere stato messo sotto contratto dalla RKO, Orson Welles è alla ricerca di un soggetto per il suo primo film. Dopo avere passato in rassegna i numerosi testi letti, ridotti e allestiti per il teatro e per la radio negli anni precedenti, si concentra su Heart of Darkness di Joseph Conrad (già adattato per il Mercury Theatre on the Air nel novembre 1938). «Sarebbe stato un film in prima persona – racconterà più tardi Welles -, con Marlow che vede attraverso la macchina da presa», stando «nella cabina di pilotaggio della barca», mentre «la sua immagine si riflette nel vetro oltre il quale lo spettatore vede la giungla»: un film con Welles nei panni di Marlow (la voce off che avrebbe raccontato la storia) e contemporaneamente, nell’idea originaria poi abbandonata, nei panni di Kurtz. Ragioni economiche inducono la RKO ad abbandonare il progetto. La sceneggiatura superstite ruota attorno a Kurtz, la prima attestazione di un tipo umano che Welles continuerà a mettere in scena lungo tutta la sua carriera fino ai suoi ultimi film, che si descrive così:
Io sono un grand’uomo, Marlow… veramente grande […]. Gli umili – tu e tutti gli altri milioni come te – poveri di spirito, io vi odio, ma so che siete migliori di me, senza sapere chi siate eccetto che vostro è il Regno dei Cieli, eccetto che voi erediterete la terra. Non fraintendetemi, non sto mettendomi a fare del moralismo sul letto di morte. Io sono al di sopra della moralità. No. Sono arrivato più in alto di altri uomini, e ho veduto più lontano. Io sono il primo dittatore assoluto. Il primo successo totale. Ho conosciuto ciò che gli altri cercano di ottenere […]. Ho vinto la partita, ma perde anche il vincitore, finisce per perdere. È completamente solo e non può che impazzire.
Kurtz, Kellar, Kane, Kindler, Macbeth, Arkadin, Achab, Quinlan, Clay sono i volti assunti nell’arco di un trentennio da quello che finisce per assumere le spoglie di un vero e proprio «mito personale» del cinema di Welles, prefigurato già nelle sue esperienze teatrali: si pensi a Eldred Brand, protagonista del dramma Bright Lucifer (1933), un adolescente geniale e diabolico che si scontra col mediocre e candido Jack, in un’opposizione di matrice shakespeariana (Edmund vs Edgar in King Lear, Antonio vs Bruto in Julius Caesar, per citare solo i testi già portati in scena da Welles) che anticipa quelle tra Kurtz e Marlow, Kane e Leland (Quarto potere, 1941), Bannister e O’Hara (La signora di Shanghai, 1947), Macbeth e Macduff (Macbeth, 1948), Jago e Othello (Othello, 1951), Achab e Ismael (Moby Dick: Rehearsed, 1955), Van Stratten e Arkadin (Rapporto confidenziale, 1955), Quinlan e Vargas (L’infernale Quinlan, 1958), Clay e Paul (Storia immortale, 1968).
Si tratta di una struttura drammatica ossessiva, «incessantemente modificata per reazione agli avvenimenti interni o esterni, ma persistente e riconoscibile» (C. Mauron): una struttura che organizza la serie dei significati attorno a un certo numero di motivi ricorrenti (il desiderio di potere, l’attrazione verso il male, il disprezzo per la morale, la manipolazione delle informazioni e degli altri, l’isolamento, la follia lucida, la morte) e la serie congiunta dei significanti attorno a un segno ricorrente. Se è vero che «l’irrazionalità segreta e veramente biologica» (S. Agosti) delle forme riflette l’inconscio, non solo la presenza costante del fonema gutturale [k] sembra garantire alla galleria onomastica del mito una sorta di continuità pre-semantica e pre-narrativa ([k]urtz, [k]ellar, [k]ane, [k]indler, ma[k]beth, a[k]ab, ar[k]adin, [k]uinlan, [k]lay), ma il grafema che corrisponde nella maggior parte dei casi a quel fonema (K), sembra addirittura configurarsi come «la cifra di Welles», visto che «sia la K che la W sono costituite da due angoli acuti congiunti; una semplice rotazione permette di passare da una lettera all’altra» (F. Casetti). Non sarà allora un caso che, nel finale di Quarto potere, un’inquadratura della sommità del cancello di Xanadu con la «K» di Kane in dettaglio, come l’ultima parola pronunciata dal protagonista prima di morire («Rosebud») sta alla sua intera vita senza riuscire a svelarne il segreto, sembra rimandare al caos proliferante di oggetti e storie contenuto in Xanadu senza poterlo risolvere.
La parte per il tutto, dunque, una metonimia, sembra essere la struttura superficiale che svela (come segno) e allo stesso tempo nasconde (come cosa) una struttura profonda (il nucleo psichico alla base del mito) nella produzione di Welles. Una metonimia potentissima usata come chiave di lettura pervasiva anche nello splendido allestimento curato da Elio De Capitani di Moby Dick: Rehearsed, poco frequentato in generale e inedito per il pubblico italiano, al quale viene offerto, col titolo Moby Dick alla prova, sulle scene del Teatro Elfo Puccini fino al 6 febbraio (poi al Teatro Carignano di Torino). La riduzione drammatica di Welles del romanzo di Hermann Melville, negli shakespearianissimi blank verse tradotti dalla poetessa Cristina Viti, ricorda De Capitani, «al pubblico non dà né mare, né balene, né navi. Solo un palco vuoto, una compagnia di attori, se stesso in quattro ruoli, Achab compreso, e il suo testo, su cui aveva lavorato per mesi, trovando una via indiretta per accettare la sfida impossibile del Moby Dick di Melville: passare per Lear, lo spettacolo che la compagnia sta recitando ogni sera, che getta un ponte tra Melville e Shakespeare, scivolando dall’ostinazione di Lear – che la vita, atroce maestra, infine redimerà – a quella irredimibile, fino all’ultimo istante, del capitano Achab».
Come tutti i protagonisti larger than life di Welles, Achab incarna uno scontro titanico tra uomo e natura. Uno scontro incessante, insensato, che all’inizio pare avere uno scopo, ma che alla fine si rivela fine a se stesso, trovando la sua ragion d’essere in un dispendio d’energia che deve continuare sfrenato fino all’esaurimento dell’energia stessa e dunque fino all’esaurimento della sua fonte, che coincide con la morte del protagonista. Una morte più violenta e fragorosa di tutte le altre, tanto più perturbante in quanto, a differenza di quelle illusive predisposte da Welles per il grande schermo, programmata per essere realizzata con mezzi poveri e brechtianamente antimimetici in teatro. Il vuoto del palco è dunque la metonimia più potente del vuoto lasciato dalla morte e prima ancora del vuoto lasciato da un senso che ha smesso di esserci quando ha cominciato a girare narcisisticamente su stesso. Sulla scena, insieme a De Capitani, che riproduce il tratto ingombrante, tuonante, trascinante della fisicità e del carattere dell’eroe di Welles, per di più sovrapposto ad altri personaggi (Capocomico, Lear e Padre Mapple), con una forza che impressiona, si muove altrettanto inarrestabile un cast pluripremiato che riunisce tre generazioni dell’ensemble dell’Elfo. Angelo Di Genio (Attor Giovane/Ishmael) controbilancia l’irruenza del capitano/capocomico con un’energia dolce e pietosa quanto trascinante che commuove fino a illuderci per qualche istante che la vicenda potrebbe finire diversamente e Achab salvarsi e la Pequod non affondare; la sua voce, assieme a quella straniante di Cristina Crippa (Direttore Di Scena/Cambusiere), tesse attorno alla storia un racconto che integra, giustifica e talvolta sospende quello che accade in scena. Intense anche la delicatezza svagata del fool di Giulia Viana (Attrice Giovane/Cordelia/Pip) e l’energia retta e sincera di Marco Bonadei (Attore Serio/Kent/Starbuck/Queequeg). Completano il mosaico drammatico, altrettanto indispensabili, Enzo Curcurù (Attore Di Mezza Età/Stubb/Daggoo/Voce Dello Scapolo), Michele Costabile (Attore/Flask/Vedetta), Massimo Somaglino (Attore Veterano/Peleg/Voce della Rachele), Alessandro Lussiana (Attore Cinico/ Elijah/ Tashtego) e Vincenzo Zampa (Attore con il giornale/Carpentiere/Vedetta). Essenziali alla riuscita del dramma, a punteggiarne gli snodi, a scolpirne le figure, a sottolinearne il senso come manifestazione del ritmo prima ancora che del testo, sono le musiche composte e suonate dal vivo da Mario Arcari, che si unisce al cast nei cori e nei sea shanties diretti da Francesca Breschi.
Foto di Marcella Foccardi
Milano, Teatro Elfo Puccini fino al 6 febbraio
Torino Teatro Carignano 8-20 febbraio