Carmelo Rifici: Uomini e no, una riflessione autentica sull’umanità

È il 1944 e Milano conosce uno degli inverni più caldi dal 1908. Non solo dal punto di vista meteorologico. I nazifascisti hanno, infatti, il controllo della città e i partigiani mettono a segno numerose azioni di contrasto. Con inevitabili ripercussioni sulla cittadinanza. È questo lo scenario che fa da sfondo a Uomini e no, romanzo scritto da Elio Vittorini nel ’44 e pubblicato l’anno successivo, che continua a essere di grande attualità per le questioni che pone sulla natura umana e sul male. Carmelo Rifici ha scelto di portarlo in scena (affidandolo a 17 attori neodiplomati alla scuola “Luca Ronconi” da lui diretta) nella versione riscritta dal drammaturgo Michele Santeramo e il Piccolo Teatro, nel settantesimo anniversario della sua fondazione, ha aperto la stagione 2017/18 proprio con questo spettacolo potente, a tratti commovente, che chiama in causa ognuno di noi. Ne abbiamo parlato con il regista.

 

Come mai hai scelto Uomini e no?

Volevo lavorare su un testo che fosse scritto per e su Milano e che avesse come protagonisti dei giovani che potevano avere su per giù la stessa età dei ragazzi con cui avrei lavorato. Chiaramente mi è subito venuto in mente il romanzo di Vittorini che, per di più, contiene dei temi che negli ultimi tempi sono al centro della mia riflessione e, quindi, mi è sembrata la scelta più plausibile. Ne ho parlato con Michele Santeramo e, del tutto casualmente, ho scoperto che anche lui stava pensando di lavorare sullo stesso testo più che altro per le scelte linguistiche di Vittorini e, soprattutto, per i personaggi che comportano un’idea di relazioni molto più complesse e con un linguaggio più articolato di quanto oggi sia possibile. Questa sintonia ha reso più semplice la scelta. E anche per la direzione del Piccolo andava benissimo rispetto a quello che stava attuando per questa stagione.

Il «contagio della violenza» è uno dei temi principali…

Sì, ed è un tema su cui sto lavorando molto: come la violenza si propaga, come può essere fermata dall’uomo, l’uomo cosa mette in atto per poterla usare…

 

Un’altra questione è legata alla ricerca della felicità che anima i personaggi.

Puoi anelare alla felicità, ma è implausibile da raggiungere e Vittorini lo dice molto chiaramente, forse ancora di più ci mette l’accento Michele Santeramo. Peraltro credo sia anche la chiave che ci lega al contemporaneo perché è proprio la mancanza della ricerca della felicità, o la mancanza della ricerca della relazione, che secondo me vanno di pari passo come dice bene Selva quando afferma «la felicità è lavorare per gli altri, essere per gli altri». Penso sia un po’ la malattia dei nostri tempi ed è un altro aspetto che ci ha spinto a lavorare su questo tema perché se ne sente l’urgenza. È chiaro che i nostri tempi non sono ostili come quelli del ’44, ma hanno un altro tipo di ostilità. E sicuramente la mancanza di speranza o di un anelito alla felicità o al rapporto, alla relazione è palpabile e ti spinge a scegliere quei testi che possano raccontarlo.

Il tuo spettacolo è a tutti gli effetti una tragedia.

Questo è proprio il genere a cui si è attenuto Michele Santeramo per riscrivere la drammaturgia. Lo spettacolo inizia con un coro, come succede per le tragedie classiche, e il coro è un protagonista dello spettacolo e porta avanti anche il filone emotivo dei personaggi e della loro evoluzione emotiva. Soprattutto nella seconda parte, i personaggi irrompono con dei monologhi che non ci mostrano quello che è successo, ma ce lo raccontano, proprio come succede nella tragedia classica. Quindi, da un punto di vista della drammaturgia, è stato proprio pensato e costruito cercando di far sì che le vicende della Resistenza milanese potessero assomigliare molto a quello che avremmo fatto se avessimo portato in scena Euripide.

 

Le differenze tra i venticinquenni di oggi e quelli del 1944 sono abissali. Che indicazioni hai dato agli attori per avvicinarsi ai loro personaggi?

È stato un lavoro di approcio abbastanza millimetrico, camminando piano piano siamo andati verso l’obiettivo di dare al pubblico tutte le sfaccettature di queste relazioni, di questi personaggi. È stato un lungo e tortuoso cammino dove ricordavo sempre agli attori che l’importante non era che si immedesimassero nei personaggi perché era impossibile poterli recuperare, ma che ne sentissero effettivamente la distanza. Li spronavo a capire ciò che li distingueva da quei personaggi, che li rendeva estremamente diversi e non ciò che gli apparteneva e li rendeva simili. Solo così avrebbero potuto trovare una loro strada di verità. Perché l’autenticità non risiedeva nella mimesi all’interno delle maglie del personaggio, ma nel buttarsi a capofitto nel mare che li distanziava. Era per me interessante che loro nuotassero in quel mare di differenze in modo da sentire anche più concretamente se alcune spinte di quei personaggi diventavano vive in loro oppure continuavano a rimanere distanti.

 

Un approccio interessante…

Sarebbe stato impensabile lavorare sull’immedesimazione, il testo stesso non ce lo consentiva perché è in terza persona, con pochissimi dialoghi e quindi anche la terza persona ci permetteva e ci ha permesso di attuare anche una certa distanza in modo da renderli più oggettivi, più lucidi. E a riuscire a trovare, in questa lucidità, quella chiave emotiva che gli atti riescono a portare in scena soprattutto nel secondo tempo, quando le maglie della drammaturgia diventano più fluide e agli attori è permesso di più lasciarsi andare all’interno dei percorsi emotivi dei personaggi. Il percorso è stato davvero lento, graduale, pieno di trabocchetti. Abbiamo cercato di far sì che l’attore mettesse in atto tutte le sue piccole consapevolezze per utilizzare quelle trappole a proprio favore e non esserne mangiato.

 

Per esempio?

Una delle grosse trappole del linguaggio di Vittorini può essere un certo tipo di retorica letteraria, di grande uso della letteratura e della sua struttura e quindi gli attori potrebbero essere mangiati dalla sapienza della composizione dello scrittore. Oppure alcuni momenti in cui il testo, messo in bocca a dei giovani attori, potrebbe diventare un melodramma più che una riflessione autentica sull’umanità. Ci abbiamo dovuto lavorare molto perché è chiaro che lasciarsi andare all’immedesimazione o all’avventura psicologica emotiva dei personaggi poteva per loro essere una grande insidia non conoscendo quelle vicende in prima persona.

Come ti è venuta l’idea di mettere in scena un tram?

Mentre studiavo il testo mi sembrava che il tram fosse il luogo giusto dove ambientare tutto perché il testo è pieno di indicazioni urbanistiche di Milano e soprattutto di indicazioni di come i partigiani o i milanesi si spostano. Leggendo bene il romanzo salta agli occhi che l’utilizzo della macchina è estremamente minaccioso perché dove entrano le auto entra il potere nazifascista. Mi piaceva l’idea di immaginare che per muoversi nella città ci fossero dei mezzi relazionali – come le biciclette o il tram – dove la gente potesse sentire l’idea di una comunità. In contraddizione con l’auto, o il panzer o il mezzo che trasporta la mitragliatrice, che, invece, sono dei segni di minaccia che entrano a violentare Milano, che ha sempre avuto la vocazione a essere una città aperta, relazionale e che viene messa sotto assedio da mezzi minacciosi che portano in sé l’idea di disgregazione sociale. Per questo ho voluto recuperare il tram che doveva essere diviso a metà per un motivo strutturale allo spettacolo (intero avrebbe impedito agli attori di muoversi con agilità). Ma c’è anche un motivo più simbolico, più metaforico legato al poter immaginare che la struttura portante della città di Milano, la sua vitalità è legata ai mezzi di superficie, alle bici, e ai piedi che percorrono le grandi piazze e le vie che vengono frantumate o annientate dall’arrivo di mezzi più minacciosi. È una modernità che nel romanzo  e nel set come lo abbiamo inteso noi è inquietante e non porta niente di buono.

 

Foto di Masiar Pasquali

 

Milano           Piccolo Teatro Studio Melato             fino al 19 novembre